Trucioli

Liguria e Basso Piemonte

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Il magistrato/ Vicenda Toti. Riflessioni e proposte. La Giustizia umana, si sa, è mutevole e, talvolta, fallace


A Giovanni Toti, ex “Governatore della Liguria”, giornalista e politico di livello nazionale, non manca certo l’eloquio e neppure l’attitudine a comunicare con efficacia. Eppure non è riuscito a trasmettere il suo messaggio a gran parte del corpo elettorale.

di Filippo Maffeo, magistrato in pensione

Il presidente Toti al West Coast Meeting Loano 2023 di Comunione e Liberazione  ispirato da Papa Francesco: “Arda nei vostri cuori questa santa inquietudine”

La sua voce è stata sommersa dal clamore e dal polverone. L’elettore medio non è ben informato sugli addebiti, sulle accuse specifiche, sui titoli di reato. Sa di incontri nel panfilo di Spinelli, di telefonini accuratamente lasciati a terra, di finanziamenti elargiti nelle forme di legge ma illeciti, di procedure rapide per l’apertura di un supermercato e, sommariamente di presunti favori e-o o abusi; sa di indagini durate quattro anni e  del suo capo gabinetto che avrebbe ricevuto da parte di politicanti locali in qualche modo collegati con ambienti malavitosi calabresi  la promessa  di voti, 300-400, quelli dell’intera comunità Riesina emigrata a Genova, dalla Calabria. Questo sa, per quel che ho potuto verificare, l’elettore medio in relazione alle accuse. E’ stata la vicenda veicolata dai mezzi d’informazione. Sa anche, l’elettore medio, che Toti si è difeso dichiarando che i soldi che ha preso sono frutto di regolari finanziamenti ai gruppi politici, effettuati nel rispetto della legislazione vigente.

Ho interpellato più persone, di vario orientamento politico, ed ho ricevuto solo risposte politicamente orientate.

E’ uno scandalo”, ho sentito dire da quasi tutti. Ma il significato della frase era ben diverso, a seconda del sentimento “politico”. Per alcuni Toti l’aveva fatta grossa. Per altri a combinarla grossa erano stati altri. Lotta politica per via giudiziaria. Se, però, per approfondire, chiedi: “Toti ha compiuto atti contrari ai doveri d’ufficio (e quali?)”, ricevi risposte in parte sorprendenti.

Gli avversari, in prevalenza, non hanno dubbi: atti contrari, tutti, senza distinguere tra le accuse a Toti e quelle ad altri imputati, accusati in modo specifico di corruzione propria. I sostenitori improvvisano risposte incerte, che esprimono plasticamente il difetto d’informazione.

In sostanza né gli uni né gli altri sono stati raggiunti da informazioni o notizie esaustive. Tutti sanno che è accusato di corruzione; soltanto in pochi sanno se l’accusa è quella di aver compiuto atti contrari ai doveri d’ufficio.

Sul punto molti giornali non hanno dato il meglio di sé, concentrandosi unicamente sulla “corruzione”, un nome, un valore, un simbolo e un atto di per sé esecrabile. E tanto basta per non approfondire, per non guardare più a fondo o per sorvolare sulla specificità degli atti addebitati e sulla loro conformità o meno ai doveri d’ufficio; in sostanza sulla natura e gravità della corruzione.

Informazione parziale, ma formalmente corretta.

Eppure non costava molto aggiungere l’aggettivo “conformi” o “contrari” (secondo lo schema tradizionale e diffuso tra i non tecnici), a maggior ragione in un sistema che ora ammette, a certe condizioni di trasparenza, la dazione di somme ad un pubblico ufficiale. Non a tutti i pubblici ufficiali, si badi, ma solo ai politici ed ai loro movimenti: il finanziamento elettorale.

Toti ha tentato di difendersi, ha trovato anche alcune sponde giornalistiche, ma la sua voce, sostanzialmente, alla fin fine, è rimasta sul fondo, soffocata, inudibile, nel clamore generale. Non ha sfondato il muro della comunicazione.

Giovanni Toti non è Enrico Toti.

Non ha, come Enrico, lanciato, a sfregio, la stampella contro il nemico asburgico, da cui era stato ferito a morte.

No.

Si è lamentato dicendo di aver governato con atti legittimi; ha espresso doglianze anche per l’uso della legislazione antimafia contro di lui, che mafioso non era e non è risultato essere, ma che, ciononostante,  ha dovuto subire indagini per quattro anni continui, con intromissioni pervasive nella sua vita quotidiana.

Diceva di volere, anzi reclamava, il processo per dimostrare che delinquente non è.

Poi si è acconciato alla situazione, ha messo da parte la combattività ed ha accettato di buon grado la proposta del P.M., tanto appetitosa, a suo dire, da non poter essere rifiutata: non carcere ma solo lavori socialmente utili per un migliaio o poco più di ore e per un’attività non particolarmente onerosa. E poi quanto sarebbe durato il processo e con quali costi? E il patteggiamento non è confessione di colpa, ha detto.

Così, se non ho mal inteso, l’ex Governatore ha spiegato la sua scelta.

E’ andata persa (sempre che, si badi, l’accordo tra P.M. ed imputato sia ratificato dal Giudice, esito tutt’altro che scontato) un’ottima occasione per:

  • affrontare e ricostruire nei dettagli, in pubblico, nel dibattimento ed in contradditorio, l’intera indagine e tutte le condotte incriminate;
  • discutere sui limiti del finanziamento politico e sugli effetti di una recente riforma penale, in materia di corruzione;
  • Analizzare l’uso degli strumenti d’indagine, eccezionali e sommamente penetranti, applicati e previsti dalla legislazione antimafia.

Peccato.

E’ una velata critica alla scelta dell’ex Governatore?

No.  Non ho, né vanto, alcun titolo per criticare né per muovere censure a Toti o chicchessia. Ritengo, anzi, che, in questo campo, le decisioni dell’indagato devono sempre essere rispettate. Il senso di umanità e la comprensione devono sempre prevalere. L’uomo non è una macchina, un robot. Un giorno, anche uno solo, di privazione della libertà è una sofferenza, che non troverà mai il giusto compenso. La semplice pendenza, a tempo indefinibile, del processo, poi, è, di per sé, una pena intensa. E la frequentazione di aule di giustizia e di avvocati, come imputato, per anni ed anni, con lo stress dell’ udienza (e della vigilia e dei giorni successivi) non è certo il massimo della vita.

La vicenda può, comunque, fornire lo spunto per alcune riflessioni e qualche proposta. Suggerimenti scritti in punta di piedi, sopra un biglietto messo in bottiglia ed affidato alle correnti marine, con la speranza che giunga nelle giuste mani.

Andiamo con ordine.

Prima il codice conosceva due tipi di corruzione, la corruzione impropria (ricezione di somme etc. per il compimento di atti conformi ai doveri, art. 318) e la corruzione impropria (ricezione di denaro etc. per atti, omissioni o ritardi contrari ai doveri d’ufficio, art. 319).

Nel 2012, (ministro di Giustizia la prof.ssa Paola Severino, Presidente del Consiglio il prof. Mario Monti) l’art. 218 c.p. che, come si è detto, puniva la corruzione per atti conformi ai doveri d’ufficio è stato profondamente modificato. E’ stato eliminato il reato di “corruzione per un atto d’ufficio” ed è stato introdotto il reato di “corruzione per l’esercizio della funzione”, delitto che non richiede necessariamente il compimento di atti (atti ovviamente conformi ai doveri d’ufficio, perché, in caso contrario, scatterebbe il reato previsto dall’art. 319 c.p., che vieta ed assoggetta a pena gli atti contrari ai doveri d’ufficio).

Nel tentativo di spiegare la differenza si è detto ( Brocardi.it, art. 318 c.p., nota 3) che “la riforma del 2012 ha eliminato il riferimento al compimento di “atti”, spostando l’accento sull’esercizio delle “funzioni o dei poteri” del pubblico funzionario, permettendo così di perseguire il fenomeno dell’asservimento della pubblica funzione agli interessi privati qualora la dazione del denaro o di altra utilità è correlata alla generica attività, ai generici poteri ed alla generica funzione cui il soggetto qualificato è preposto e non più quindi solo al compimento o all’omissione o al ritardo di uno specifico atto. Oggi quindi viene criminalizzata anche la corruzione impropria attiva. L’espressione “esercizio delle sue funzioni o dei suoi poteri” rimanda non solo alle funzioni propriamente amministrative, ma anche a quella giudiziarie e legislative, quindi si deve intendere genericamente qualunque attività che sia esplicazione diretta o indiretta dei poteri inerenti all’ufficio. Dunque, sono compresi anche tutti quei comportamenti, attivi od omissivi, che violano i doveri di fedeltà, imparzialità ed onestà che devono essere rigorosamente osservati da tutti coloro i quali esercitano una pubblica funzione”.

Difficile, in particolare, comprendere la distinzione tra gli “atti” e i “comportamenti, attivi od omissivi”, che non si risolvono in atti e che violano i doveri di fedeltà, imparzialità ed onestà che devono essere rigorosamente osservati da tutti coloro i quali esercitano una pubblica funzione. Di fatto, in concreto, questi “comportamenti attivi od omissivi” che non si traducono in atti (positivi o per omissione) in che cosa consistono? E, soprattutto, perché  questi atti e comportamenti “che violano i doveri di fedeltà, imparzialità ed onestà che devono essere rigorosamente osservati da tutti coloro i quali esercitano una pubblica funzione,  dovrebbero essere sottratti alla disciplina dell’ art. 319 c.p. che vieta e punisce gli atti contrari ai doveri d’ufficio?

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 1863 del 2021, ha stabilito che “L’art. 318 cod. pen., nel testo attualmente vigente, sanziona la violazione del principio rivolto al pubblico funzionario di non ricevere denaro o altre utilità in ragione della funzione pubblica esercitata e, specularmente, al privato di non corrisponderglieli; la norma sanziona l’intesa programmatica – l’impegno del pubblico ufficiale a curare interessi indebiti senza la previa individuazione di alcunchè -, previene la compravendita degli atti d’ufficio e garantisce il corretto funzionamento e l’imparzialità della pubblica amministrazione. Il discrimine rispetto alla corruzione propria resta pertanto segnato dalla progressione criminosa dell’interesse protetto in termini di gravità (che giustifica la diversa risposta punitiva) da una situazione di pericolo (il generico asservimento della funzione) ad una fattispecie di danno, in cui si realizza la massima offensività del reato (con l’individuazione di un atto contrario ai doveri d’ufficio). Nel primo caso la dazione indebita, condizionando la fedeltà ed imparzialità del pubblico ufficiale che si mette genericamente a disposizione del privato, pone in pericolo il corretto svolgimento della pubblica funzione; nell’altro, la dazione, essendo connessa sinallagmaticamente con il compimento di uno specifico atto contrario ai doveri d’ufficio, realizza una concreta lesione del bene giuridico protetto, meritando quindi una pena più severa. (Cfr. Sez. 6, n. 18125 del 2019, cit.).”

Non voglio disorientare il lettore che, incautamente, mi ha sin qui seguito.

Ho posto l’accento su questi dettagli perché Toti, in estrema sintesi, si è difeso affermando che la normativa (il nuovo articolo 318 c.p.) è oscura e che il suo concreto contenuto viene sostanzialmente rimesso, di fatto, all’interpretazione del giudice; non era in grado, da solo, sostiene, di stabilire esattamente il confine tra il lecito e l’illecito quando riceveva i finanziamenti -pur leciti, dice- al proprio gruppo politico e, nel contempo, si doveva occupare, con atti legittimi perché conformi ai doveri d’ufficio, di questioni che coinvolgevano il finanziatore.

Questo è il primo aspetto che merita qualche riflessione.

Il secondo riguarda il timore, espresso dall’ex Governatore, in relazione alla temuta durata, ultradecennale, del processo ed alle connesse spese legali. In effetti per questi processi gli avvocati presentano parcelle finali di decine di migliaia di euro e, solitamente, richiedono acconti per importi considerevoli. Messi sul piatto della bilancia, da un lato, i tempi del processo, i disagi psico-fisici e le spese e, sull’altro piatto, la modesta sanzione sostitutiva che, d’iniziativa, il PM, con il patteggiamento, gli ha offerto, su un piatto d’argento, Toti ha scelto, dice, la seconda opzione in campo.

Terzo punto: il P.M. ed i giudici competenti chiamati a decidere operano sullo stesso territorio amministrato da Toti; nella stessa città in cui si trova la Regione Liguria e la sua struttura amministrativa. E’ un bene o un male?

Tre punti.

Non pretendo di avere in tasca ricette miracolose. Mi limito a proporre alcuni aggiustamenti, magari piccoli e non eclatanti, ma certamente non peggiorativi   Tre interventi legislativi.

Quanto al primo punto, scarsa chiarezza della norma, evito di approfondire il tema: mi limito ad osservare che tutti possono essere chiamati all’espletamento di funzioni elettive e tutti devono trovare un quadro normativo di riferimento chiaro, per sapere ciò che possono o non possono fare, senza l’ausilio quotidiano di uno staff di avvocati. Se un politico di livello come Toti manifesta, sia pure come indagato,  delle perplessità sulla precisione e chiarezza della norma, l’opinione pubblica ha  il dovere d’interrogarsi, anche perché il nostro diritto penale si fonda sulla tipicità delle fattispecie, oltre che sul principio di legalità, (in base al quale nessuno può essere punito se un fatto non è considerato reato da un’apposita legge, sancito dalla Costituzione all’articolo 25 e dal codice penale agli articoli 1 e 199) e su quello di tassatività delle fattispecie.

Per farla breve la norma penale deve, nei limiti del possibile, descrivere con precisione le condotte vietate, per evitare incertezze o interpretazioni che possono mutare da Tribunale a Tribunale. Il cittadino-politico deve sapere prima, perché lo legge chiaramente nel codice, ciò che è vietato e, per converso, quel che è lecito; l’analogia non è consentita e non può trovare spazio l’imprecisione o l’incertezza.

Spetta al legislatore e non all’interprete in sede di giudizio, il delicato compito di delineare la linea rossa nell’ambito dell’esercizio delle funzioni, in particolare in un ordinamento che ammette il finanziamento privato dei partiti. La chiarezza della norma non è solo un diritto del politico: è, anche, un interesse, vitale, dei cittadini, che quando eleggono qualcuno hanno il diritto a che l’eletto rimanga in carica sino all’espletamento del mandato, per tutto il tempo di legge, se non commette particolari reati, delineati in modo chiaro e comprensibile ad una persona di ordinaria cultura.

Non è ammissibile che il pubblico amministratore navighi a vista e cammini sulle sabbie mobili sino a quando un Tribunale non gli dice quel che poteva o non poteva fare, anche perché la giurisprudenza è spesso mutevole e quel che a Genova è vietato potrebbe a Palermo essere ammesso; anche la Cassazione, poi, potrebbe, nel tempo, pronunciare sentenze di contenuto opposto, quanto al principio affermato. Il Parlamento dovrebbe, quindi, senza ritardi, rimetter mano al testo e, nei limiti del possibile, precisarlo, con riferimento all’esercizio di funzioni pubbliche elettive in presenza di finanziamenti elettorali.

Sono questioni delicate: mi limito a fare un esempio, tratto dalla giurisprudenza e relativo all’art.319 c.p.:

Sez. 6, Sentenza n. 49547 del 03/10/2003 Ud.  (dep. 31/12/2003 ) Rv. 227888 – 01

Presidente: Fulgenzi R.  Estensore: Gramendola FP.  Imputato: Petralia ed altro. P.M. Galati G. (Conf.) (Rigetta, App.Catania, 19 giugno 2002): “In tema di reati di corruzione, deve ritenersi sussistente il reato di corruzione di cui all’art. 319 cod. pen. ogni qual volta la dazione in favore del pubblico ufficiale costituisca il compenso del favore ottenuto, a nulla rilevando che si sia trattato di un contributo a fini elettorali, ne’ che la stessa sia avvenuta a distanza di tempo dalla formazione dell’atto. (In applicazione di tale principio la Corte ha ritenuto corretta la decisione dei giudici di merito che aveva qualificato come corruzione propria l’emissione da parte di un assessore regionale di decreti di finanziamento di opere pubbliche, poi aggiudicate da un imprenditore edile, che aveva versato al primo, quale compenso per il favore ottenuto, un contributo elettorale in occasione di consultazioni svoltesi a distanza di anni).

Qui si parla di favori e si applica l’art. 319, quindi di atti illeciti perché atti contrari ai doveri d’ufficio ed alla regola dell’imparzialità. E se il comportamento non si risolve in atti illeciti di favore? (si pensi ad una procedura rapida, non abusivamente ed artatamente accelerata, senza lesione di interessi pubblici o privati, nel rilascio di una concessione).

A prescindere dal caso deciso ed ammettendo che un politico riceva somme a titolo di finanziamento, mi pongo una domanda: può (e come e dopo quanto tempo?) quel politico occuparsi – ovviamente con atti conformi ai doveri d’ufficio- di questioni o affari economici (e quali?) che riguardano il finanziatore o deve sempre e comunque astenersi dall’intervenire? Questo è il punto e l’interesse generale impone chiarimenti normativi -e non di poco conto-. In mancanza ogni amministratore pubblico che abbia ricevuto un finanziamento è in costante pericolo d’incriminazione.

Il legislatore non può sottrarsi ad un tempestivo intervento.

In relazione al secondo punto, la durata dei processi, la soluzione, pur postulando ancora un intervento normativo, potrebbe essere agevole: credo che si debba creare un binario preferenziale per i processi a carico di Ministri, Governatori di Regione Sindaci, Consiglieri regionali e Sindaci, perché questi processi, tra l’altro sempre più diffusi, producono conseguenze politiche e non riguardano solo il singolo amministratore ma l’intera platea degli elettori, che hanno il sacrosanto diritto di sapere se quel politico è o non è un criminale; e di saperlo in tempi rapidi.

Oggi il nostro sistema prevede la corsia preferenziale ed accelerata per i reati a carico di detenuti, sotto pena della scarcerazione.

Matteo Salvini imputato nel Processo Open Arms per i fatti risalenti all’agosto 2019: le accuse all’allora  (e attuale) Vice premier sono di sequestro di persona e rifiuto di atti d’ufficio.

Le stesse regole, con tempi rimodulati, si potrebbero, senza grandi sforzi, essere estese ai processi a carico di politici (Ministri etc. di cui sopra), sotto la “pena”, ad esempio, della procedura disciplinare a carico dei magistrati che hanno sfondato i tempi prefissati. Pensiamo al processo a carico di Matteo Salvini, che, stancamente si trascina da anni, pur a fronte di un’imputazione gravissima. Un processo trattato come tutti gli altri, con i soliti rinvii o quasi, da una stagione all’altra; e siamo ancora nel primo grado di giudizio. Quanti anni ancora prima della definizione?

Si può ora passare al terzo punto: il giudice competente per i reati dei pubblici amministratori.

Anche qui è necessario un intervento legislativo.

Può essere d’aiuto un breve excursus storico in materia di reati commessi e relativi all’esercizio delle funzioni, per meglio comprendere l’evoluzione della normativa.

La Costituzione, nel testo scritto dai Padri Costituenti, prevedeva (art. 96) che l’accusa poteva essere promossa solo dal Parlamento in seduta comune e che il giudizio fosse di competenza della Corte Costituzionale. Il profondo turbamento nell’opinione pubblica, che le accuse penali nei confronti di ministri generano, imponeva questa disciplina particolare. Garanzia maggiore delle Camere in seduta comune (per l’accusa) e della Corte Costituzionale per il giudizio.

Per i Parlamentari, nell’art. 68, prevedeva un’estesa immunità.

Come si vede una disciplina del tutto speciale, giustificata dall’eccezionalità della situazione.

Ora per i Parlamentari, con la riforma dell’art. 68, l’immunità è molto ridotta.

Per i ministri (ed il Presidente del Consiglio), anche se cessati dalla carica, la disciplina è radicalmente cambiata.

I ministri, infatti, sono ora sottoposti, per i reati commessi nell’esercizio delle funzioni, alla giurisdizione ordinaria, previa l’eventuale autorizzazione del Senato o della Camera, di cui fanno (o hanno fatto) parte o del Senato, nel caso di ministro “tecnico” non eletto ad una delle Camere.

La competenza della Corte Costituzionale è ora circoscritta alle accuse contro il Presidente della Repubblica.

Per i reati ministeriali e limitatamente al giudizio sull’accusa è stato istituito, in ogni capoluogo di Corte d’Appello il “Tribunale dei Ministri” (pomposa definizione ormai consueta ed abitudinaria, ma mai usata nella legge istitutiva), che stabilisce se si può procedere in relazione alle accuse mosse nei confronti di un ministro. Il collegio è formato  tre membri effettivi e tre supplenti, estratti a sorte tra tutti i magistrati in servizio nei tribunali del distretto e che abbiano una certa qualifica (magistrato di tribunale da almeno cinque anni o qualifica superiore) . Il collegio è presieduto dal magistrato con funzioni più elevate, o, in caso di parità di funzioni, da quello più anziano d’età. Come si vede il giudice è deciso dalla sorte.

La procedura completa è questa: il Procuratore della Repubblica riceve la denuncia e la manda al cd. Tribunale dei Ministri (la cui composizione è definita dal sorteggio), che svolge le indagini e archivia o trasmette gli atti al Procuratore, affinché richieda l’autorizzazione a procedere alla Camera di appartenenza del ministro o al Senato.

Se l’autorizzazione viene emessa,  il giudizio di primo grado si svolge presso il Tribunale ordinario del capoluogo del distretto di Corte d’Appello  (i membri del Tribunale dei ministri non possono parteciparvi).

Più in dettaglio Il giudizio di primo grado spetta al tribunale ordinario del capoluogo del distretto di corte d’appello competente per territorio determinato dal luogo di commissione del reato. Per le impugnazioni e gli ulteriori gradi di giudizio si applicano, ancora,  le norme del codice di procedura penale.

Riassumendo:

  • indagini e decisione su archiviazione o richiesta di autorizzazione della Camera spettano al Tribunale dei ministri, composto da magistrati estratti a sorteggio, tra tutti quelli del distretto e con una certa anzianità e qualifica.
  • Giudizio di primo grado, Appello e Cassazione secondo le regole generali, con giudici individuati secondo le ordinarie Tabelle, che seguono un procedimento tutto interno agli ambienti giudiziari e senza nessuna garanzia particolare, neppure quella del sorteggio, prevista solo per il cd. Tribunale dei Ministri, come si è detto.

Per quanto buffo possa apparire, la politica si lamenta per le invasioni di campo dei giudici ordinari, ma, come, si è vede, fu la politica a mettere le armi nelle loro mani.

Questo per i ministri.

Per i Presidenti di Regione (e i Consiglieri Regionali ed i Sindaci) non è prevista alcuna garanzia specifica. Tutto è rimesso alla Magistratura ordinaria, secondo le regole ordinarie, quelle che valgono per tutti.

Questo è il punto: le regole che valgono per tutti sono sempre, in ogni caso, la miglior garanzia?

Mi spiego meglio.

Un giudice vive ed opera in un certo ambiente, lo stesso nel quale vive ed opera anche, ad esempio il “Governatore” regionale, il Toti di turno. E’ ben possibile che si conoscano e che, in qualche ambiente, si siano anche frequentati, magari solo in manifestazioni e cerimonie pubbliche, come “autorità”. E questo, ordinariamente, non avviene nei comuni processi per i comuni mortali. Certamente, poi, il Giudice è rimasto “coinvolto” nelle scelte politiche del Governatore, aderendovi o contestandole, in privato e-o in pubblico.; è rimasto coinvolto, almeno come spettatore, anche nelle valutazioni private e-o nelle polemiche e discussioni pubbliche sull’operato del Governatore.

Non è (o almeno può apparire), occorre riconoscerlo, olimpicamente distante, neutro e disinteressato. Di più. Il difensore del Governatore si trova di fronte ad un bivio, perché il Governatore passa ma il P.M. o il Giudice rimane; che deve fare il difensore? Tenerseli, prudenzialmente, buoni, essere attento e cauto, pensando al suo futuro, o spingere a fondo l’acceleratore nella difesa? Il problema per l’Avvocato si pone in tutti i processi, ma diventa ben più acuto in quelli di grido, che suscitano reazioni pubbliche intense e contrastanti. Il politico deve quindi farsi assistere da un difensore di un foro distante -che non conosce- o da un difensore locale che, come tale, dovrà, in futuro, confrontarsi con i Giudici (e P.M.) che trattano ora la vicenda del suo assistito.

Tutto questo per dire che le regole “ordinarie”, quelle che valgono per tutti, mostrano evidenti limiti, quando la situazione specifica ordinaria non è, anche perché riguarda personaggi che hanno ricevuto nelle elezioni voti a centinaia di migliaia ed hanno gestito in loco questioni di vario genere, che hanno coinvolto in qualche misura, i magistrati chiamati ad operare.

Esiste, a mio parere un rimedio, alquanto semplice.

Basta far ricorso alla disciplina prevista per i magistrati.

La regola è prevista dall’art. 11 dell’Ordinamento giudiziario e serve a garantire, nei limiti del possibile, che il P.M. ed il Giudice siano non solo neutri ma che tali anche appaiano: un magistrato non può essere giudicato da colleghi che esercitano le loro funzioni nel distretto in cui opera; possono intervenire solo magistrati di un altro distretto di Corte d’Appello.

Ecco. Il Governatore regionale (ed il Sindaco ed il Ministro ed il Consigliere regionale) dovrebbe essere incriminato e giudicato da magistrati che esercitano la funzione in luoghi diversi (e magari anche ben distanti) dal posto in cui il Governatore (ed il Ministro, il Consigliere Regionale ed il Sindaco) ha operato ed è stato eletto. Magari, in aggiunta, nell’individuazione in concreto del P.M. o del Giudice chiamati ad agire, si potrebbe anche aggiungere il criterio della scelta per sorteggio, che taglia la testa ad ogni polemica su operazioni poco trasparenti sui mezzi di scelta.

Per restare all’esempio e concludere: il Toti di turno processato, in tempi rapidi, a Torino (o a Trieste, o a Brescia, o a Cagliari) in un foro predeterminato o, meglio, in un foro estratto a sorte, da P.M. e giudici estratti a sorte in sede locale.

E, magari, per evitare altri sospetti, patteggiamento solo se richiesto dall’indagato e giammai proposto dal P.M.

Molte doglianze, polemiche o discussioni sull’agire “politico” e parziale dei magistrati non avrebbero più ragion d’essere.

Del resto la Giustizia raffigurata nelle statue è bendata ed impugna la spada con una mano, mentre con l’altra sostiene in alto la bilancia. La giustizia bendata, per simboleggiare l’imparzialità; armata, per esprimere la forza; con la bilancia, per testimoniare l’equilibrio.

Ma non è sempre così.

A volte c’è la spada ed anche la bilancia, ma manca la benda (statue della Giustizia di Udine, in Piazza Libertà e di Firenze, in piazza Santa Trinità )

A Roma (Palazzo di Giustizia) la statua impugna la spada, ma non c’è la benda e manca la bilancia, sostituita da un librone già aperto.

A Napoli, infine, in piazza del Plebiscito, la statua non ha la benda, ha perso la spada ed anche un piatto della bilancia.

La Giustizia umana, si sa, è mutevole e, talvolta, fallace.

Filippo Maffeo


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