Gli splendori di Dolceacqua.
di Tiziano Franzi
La recente pubblicazioni su Facebook di un post di Concionator Maximus (alias Girolamo Luca Muniglia Giustiniani che vive a Seborga) e ringrazio, sull’antico aspetto del castello dei Doria in Dolceacqua, prima delle rovine causate dalla settecentesca guerra di successione al trono imperiale dalle batterie di cannoni del generalissimo spagnolo Las Minas, i cui contenuti non conoscevo, mi ha suggerito una riflessione: quanto ciò che oggi ci resta del passato è così differente da ciò che era in origine.
Le immagini che seguono, che risalgono alla fine del Seicento circa, tratte dal medesimo post, ce ne possono dare un’idea.
Il primo documento che cita Dolceacqua risale al 1151; infatti fu proprio nel XII secolo che i conti di Ventimiglia fecero costruire il primo nucleo del castello alla sommità dello sperone roccioso che domina strategicamente la prima strettoia e la biforcazione della valle verso Rocchetta Nervina e la val Roia da un lato e la media e alta val Nervia dall’altro lato, controllandone gli accessi.
Nel corso dei secoli seguenti, ai piedi del castello, si sviluppò l’abitato della Terra (Téra in dialetto locale ), seguendo le linee di livello a gironi concentrici attorno alla rocca e collegati fra loro da ripide rampe. L’acqua del Nervia fu portata ad alimentare le fontane ed a irrigare gli orti.
Nella metà del Quattrocento la crescita dell’abitato portò al sorgere del nuovo quartiere del Borgo, al di là del torrente Nervia; i due nuclei vennero collegati da un elegante ponte a schiena d’asino, a un solo arco di 33 metri di luce, ancor oggi in condizioni pressoché prefette.
Il quartiere Terra, esaurito lo spazio disponibile per la sua espansione, crebbe in altezza mediante la sopraelevazione delle case, che raggiunsero anche i sei piani, fatto inusuale per l’epoca.
Il castello subì numerose trasformazioni. Il primitivo impianto feudale, difeso alla fine del Duecento dalla torre circolare, venne ingrandito e incluso nel XIV secolo in una cinta muraria più ampia; in età rinascimentale il castrum diventò una grandiosa residenza signorile fortificata, con imponenti apparati difensivi.
Dopo aver resistito a numerosi assedi , non poté tuttavia opporsi alle artiglierie pesanti franco-ispaniche, che lo distrussero parzialmente il 27 luglio 1744 durante un episodio della guerra di successione austriaca. Non più abitato dalla famiglia dei marchesi Doria, che si trasferì nel cinquecentesco palazzo adiacente la chiesa parrocchiale, subì gli ultimi oltraggi dal terremoto del 1887.
Oggi ne rimangono le vestigia che, nello scheletro del perimetro esterno, ospitano ancora stanze e luoghi di interesse.
Ma il confronto tra l’immagine di sei secoli fa e quella odierna suscita un senso quasi di smarrimento, di stupore, di rimpianto per tutto quello che la guerra – ieri come oggi – in maligna alleanza con le inarrestabili forze della natura, ha distrutto e continua a distruggere.
“Sei ancora quello della pietra e della fionda,
uomo del mio tempo. […]
[…]Hai ucciso ancora,
come sempre, come uccisero i padri, come uccisero
gli animali che ti videro per la prima volta.”
Salvatore Quasimodo, Uomo del mio tempo, 1946
Tiziano Franzi