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Io turista e scrittore da Finalpia. La chiesa e il monastero Santa Maria. Qualche mistero e il ‘cardinale di Finale’


Nostra Signora è onorata e venerata da tempo immemorabile nel santuario di Finalepia, ma non è nota l’origine di questa profonda devozione mariana.

di Ezio Marinoni

Gregorio Penco (o.s.b.), nel fascicolo L’Abbazia di Finalpia (5.a ed. riveduta e aggiornata, a cura di P. Valter Marino, Settembre 2012) che ho acquistato nel negozio attiguo, spiega che il toponimo “Pia” è menzionato per la prima volta in un documento del 1111, insieme a quello di Perti, sotto il dominio della Marca Aleramica.

Goffredo Casalis, nel suo Dizionario geografico, storico, statistico, commerciale degli stati di S. M. il Re di Sardegna, dichiara che la chiesa è posta «sotto l’invocazione di Santa Maria Pia». Inoltre, «Quella chiesa che ha il titolo di santuario contiene un’antica immagine veneratissima di Santa Maria Pia: fu essa visitata dai sommi pontefici Paolo III, Clemente VII, Pio VII, da Carlo V imperatore e da molti altri ragguardevolissimi personaggi. I monaci Olivetani a cui fu dato in custodia il santuario sin dall’anno 1 476, abitano in un attiguo superbo convento.»

Ancora nel 1897, in un volume stampato a Savona, il Viaggioli descrive Il Santuario di Maria Pia.

La prima notizia (14 marzo 1140) su una fondazione ecclesiastica in loco, la collega al monastero di S. Quintino di Spigno. Al 6 marzo 1302 risale un legato testamentario di Giovannino Vassallo a favore «ecclesie Sancte Marie vallis Pie, scilicet operi ipsius ecclesie».

In una alternanza fra presenza monastica e secolare, nel 1336 è l’abate di Spigno a nominare il rettore di Pia.

Un atto rogato dal notaio De Rogeriis il 27 giugno 1439 vi attesta la presenza di un monaco benedettino. L’ultimo rettore secolare sarà Giovanni Alciatore, che rimette il suo mandato nelle mani dei parroci di Varigotti e Marina, nel 1454.

Nella prima metà del Quattrocento soggiorna a lungo nel monastero fra Antonio da Venezia, celebre intagliatore del legno, che vi lascia un gruppo di lavori di prim’ordine (mobili del coro e altri oggetti).

Nel 1476 Biagio Galeotto Del Carretto richiede al Card. Giuliano Della Rovere, futuro Papa Giulio II, di affidare la chiesa a monaci benedettini olivetani (i cosiddetti “benedettini bianchi”). Sarà Papa Sisto IV, savonese, a realizzare il desiderio di Galeotto e la famiglia continuerà a beneficiare il monastero, in particolare con Carlo Domenico Del Carretto, il “cardinale di Finale”.

Fra le prime attività intraprese dagli Olivetani vi è la compilazione dei registri parrocchiali, con un anticipo di circa un secolo rispetto alle prescrizioni che verranno dal Concilio di Trento (ad esempio, un registro dei battesimi, dal 1481 al 1592).

In breve tempo l’abbazia cresce, con il favore dichiarato dei feudatari Del Carretto. Nel 1491, grazie ad Alfonso Del Carretto, ottiene il priorato di S. Benedetto in Valle Belbo (CN); nel 1512, per volontà di Luigi Del Carretto, le viene unita l’abbazia di S. Maria di Farneta, a Cortona; nel 1519 riceve il monastero di S. Maria del Rio a Noli e la chiesa di S. Martino di Andora.

Fra i passaggi più illustri si annoverano l’Imperatore Carlo V nel 1525 e Papa Clemente VII nel 1533, entrambi ricordati da due dipinti moderni in chiesa. Nel 1585 l’abbazia è visitata da Mons. Mascardi, nel corso della visita pastorale disposta dalle normative del Concilio di Trento.

Nel 1729 si conclude la ristrutturazione concepita da Gerolamo Veneziano, detto il Fontanetta, secondo i dettami dell’architettura barocca, durante i quali si rialza il pavimento per evitare danni e inondazioni dal torrente Sciusa. In questa occasione il quadro della Vergine è inquadrato nell’altare in marmo policromo donato dai Conti Prasca.

Con l’arrivo degli olivetani, che rimarranno fino al 2 aprile 1799 (1), viene iniziato il chiostro del monastero.

Le vicissitudini post napoleoniche portano alla soppressione, ma nel 1845 fanno il loro ingresso i benedettini subiacensi cassinesi, chiamati dal Re Carlo Alberto. Vi rimarranno fino al 1854, poi sostituiti dalla presenza dei Carmelitani, espulsi da S. Anna in Genova, per il periodo 1859 – 1873.

L’ultima rinascita è dovuta al Padre Bonifacio Bolognani, al quale è dedicata una via poco distante: proveniente dall’abbazia genovese di S. Giuliano, permette di riprende a Finalpia l’osservanza regolare. Grazie ad una sua intuizione profetica, nel 1914 qui viene fondata la Rivista Liturgica, per alcuni decenni un’importante palestra di elaborazione teorica e confronto teologico dal respiro internazionale: è la prima rivista liturgica in Italia, la seconda in Europa. Intorno ad essa si raccolgono importanti nomi cultori, fra i quali l’Abate Ildefonso Schuster o.s.b. (poi Cardinale di Milano), che vi pubblica alcuni capitoli della futura enciclopedia Liber Sacramentorum (1932, Casa Editrice Marietti, Torino – Roma).

Dal 1920, nello spirito benedettino, i monaci vendono i prodotti dei loro alveari (miele, pappa reale e propoli), oltre a erbe officinali e rimedi naturali, per il benessere del corpo e dell’anima.

Infine, a partire dall’anno scolastico 1955-56 e fino all’anno 1966-67 il monastero ospita i giovani monaci della provincia italiana della Congregazione subiacense per il biennio filosofico, inducendo a una risistemazione dei locali del secondo chiostro, di recente costruzione.

Entriamo ora all’interno del complesso religioso. Oltre la facciata in stile barocco, svetta il campanile romanico duecentesco, uno dei pochi resti intatti della chiesa primitiva. Secondo il citato Penco, esso è «Di un tipo stilistico che ha nel finalese il suo analogo più prossimo nel campanile di Gorra (…)».

La “Madonna con Bambino e due angeli” esposta sopra l’altare è opera attribuita a Nicolò da Voltri (dal critico d’arte Adolfo Venturi), un artista attivo tra la fine del Quattrocento e l’inizio del Cinquecento, del quale conosciamo ben poco (2). Il dipinto è contenuto in una cornice lignea intagliata e dorata, voluta nel Cinquecento da Fra Antonio da Venezia. Il suo attuale contenitore è una cornice marmorea rettangolare, forse realizzata nel 1728 a spese di Cristoforo Prasca. Secondo l’autorevole parere del Penco, «doveva esistere nella chiesa di Pia un’altra effigie della Madonna, andata in seguito perduta o sostituita per motivi a noi sconosciuti. L’attuale quadro, infatti, fa la sua comparsa nella chiesa di Pia nel 1533, anno in cui esso venne inquadrato nella grandiosa cornice lignea intarsiata di Fra Antonio da Venezia».

Una cerimonia particolare avviene nel 1920: la solenne incoronazione del quadro della Madonna, verificatasi l’8 settembre, ad opera del Card. Alfonso Mistrangelo, Arcivescovo di Firenze. Nel 2020 si è festeggiata con solennità questa ricorrenza, nel suo primo centenario: https://www.chiesasavona.it/100-dellincoronazione-della-madonna-di-pia/

Pur nella ristrettezza attuale delle vocazioni, il complesso di Finalpia si apre ogni giorno al pubblico con una molteplicità di luoghi e funzioni: una chiesa, due chiostri, un monastero, un negozio, un laboratorio, una erboristeria. La vita dei monaci si svolge secondo ritmi e tempi antichi, a pochi passi dal mare, dalle spiagge e dalla trafficata Via Aurelia: un’oasi di pace che testimonia ancora oggi la ricerca di Dio.

Ezio Marinoni

Note

1.Gli olivetani rientrano a Finalpia il 22 novembre 1819, per andarsene definitivamente il 13 maggio 1843, a causa della crisi della loro congregazione.

2.Nicolò da Voltri e i suoi misteri. La prima notizia documentaria risale al 14 maggio 1386, giorno in cui si impegna a Genova con il sacerdote Luchino de Suvero per realizzare alcune scene ad affresco, perdute, nella zona absidale della chiesa di S. Maria e S. Michele Arcangelo di Coronata, in particolare sopra l’altare maggiore. Dal 1388 risulta affittuario di una propria bottega «nella zona più prestigiosa e ambita dai pittori genovesi di fine ’300». L’ultima notizia su di lui risale al 7 marzo 1417, giorno in cui riceve la commissione da parte di due massari della chiesa di Sant’Olcese in Val Polcevera per la realizzazione di un polittico, andato disperso. Per tale lavoro, da consegnare entro il maggio seguente, venne pattuito un compenso di 35 lire genovesi. Dopo questa data non si hanno più notizie e si ignorano il luogo e la data di morte. Forse allievo di Barnaba da Modena, in molte sue opere è evidente l’influsso del senese Taddeo di Bartolo.


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