L’allestimento dell’opera di Mascagni ha coinciso con la presentazione del progetto “I custodi del faro”: imprenditori chiamati a sostenere il Carlo Felice.
di Angelo Magnano

L’ombra cupa della sigla sindacale Snater e dell’annunciato sciopero ha fatto tremare i polsi alla dirigenza del teatro Carlo Felice la sera di venerdì 14 novembre. In ballo, infatti, non c’era solo l’attesa prima della “Cavalleria rusticana” ma anche la presentazione, di fronte ad un’affollata platea di imprenditori genovesi, del progetto di corporate membership “i custodi del faro”: una prestigiosa vetrina che non poteva essere frantumata dalla – sia pur legittima – agitazione sindacale. Così non è avvenuto: pur con il coro dimezzato e l’orchestra privata dell’arpa, l’opera di Mascagni è andata regolarmente in scena davanti ad una platea gremita in ogni dove, dalle autorità civiche (presidente Bucci in testa) alle elettrizzate scolaresche coinvolte dal teatro genovese. E meno male che a Cavalleria, questa volta, non erano abbinati altri titoli: non ci si è complicati ulteriormente la vita.
Ma andiamo con ordine. Intorno alle ore 18 il primo foyer del Carlo Felice si è riempito di imprenditori e rappresentanti del mondo produttivo ligure – immancabili le banche – , convocati dalla dirigenza dell’ente per rispondere ad un appello che si può riassumere in poche parole: partecipate alla “regata” di mecenatismo per fare diventare il teatro genovese un presidio sociale, economico e civile, punto di incontro tra arte e comunità locale. Per iniziare si è stabilito il simbolico numero chiuso di 45 imprese, tante quante sono le finestre della torre-faro di Aldo Rossi. Un limite non invalicabile, va da sé, ma giusto per cominciare, sull’onda di quanto altri enti, come l’Arena di Verona, hanno già sperimentato con successo grazie ad aziende illustri come il pastificio Rana e Calzedonia.

Sotto l’esperta regia di Andrea Compagnucci, mago del fundraising per l’Associazione nazionale Fondazioni lirico-sinfoniche, in pratica uno dei più abili “collettori” di finanziamenti per i teatri italiani, si sono alternati al microfono la Sindaca di Genova Silvia Salis, il Sovrintendente del Carlo Felice Michele Galli e il promoter del concept “Regata culturale” Davide Falteri, per lanciare l’idea di questo nascente club di 45 mecenati, la cui missione è stata così riassunta dalla Salis: “Aiutateci a rendere questo posto un luogo dove le nostre bambine e i nostri bambini possano sognare di lavorare un giorno, possano sognare il proprio futuro nella cultura, nella musica, nel teatro, possano vedere la cultura – e bene ha fatto, en passant, a ricordare che non coincide con l’intrattenimento e va sostenuta anche quando è disturbante – come il loro lavoro nel futuro”. “Il Carlo Felice – ha aggiunto Michele Galli, il quale intanto può registrare con soddisfazione un incremento del 30% negli abbonamenti – deve diventare un motore di crescita per la città e per il territorio, un luogo che genera inclusione, educazione e valore”. Insomma, la regata culturale dei “Custodi del faro”, suddivisi in quattro categorie, può iniziare a prendere il largo ed indubbiamente lo strumento fiscale dell’Art bonus, che permette di ricevere un credito d’imposta pari al 65% del valore della donazione, soffia come buon vento in poppa.
Dal foyer ci si è quindi trasferiti nella platea del teatro per la prima di “Cavalleria rusticana”, sperando che il fumino Mascagni, da lassù, abbia perdonato i coristi iscritti allo Snater che hanno mezzo spopolato il paesino siculo di Turiddu e Santuzza, compromettendo un’opera in cui il coro gioca un ruolo fondamentale. Pur con tale handicap di partenza, compensato dalla professionalità con cui il maestro del coro Claudio Marino Moretti ha cavato il meglio dalle voci non scioperanti, il capolavoro del genere “verista” è scivolato via con onore, riscuotendo consensi ed applausi. Il giovane direttore Davide Massiglia ha evitato il rischio, sotteso a questa partitura, di indulgere sul “forte” orchestrale e sui facili effetti sonori, privilegiando la cura dei dettagli sinfonici, allargando i tempi – talvolta forse troppo, come nel celebre Intermezzo – e conferendo all’esecuzione un respiro quasi sacrale, traducendo quindi in musica l’intuizione registica di una Sicilia archetipica, primordiale ed immutabile.
Adeguato, nel complesso, il cast vocale che curiosamente vedeva in scena tre mezzosoprani laddove le indicazioni di Mascagni detterebbero un soprano per Santuzza (nel secondo cast non a caso compariva Valentina Boi, soprano) e un contralto per Lucia. Poco male, perché Veronica Simeoni ha fatto valere smagliante timbro, canto bene appoggiato quanto proiettato ed indubbie doti interpretative nel restituire una Santuzza passionale e veritiera. Accanto a lei l’esperta Manuela Custer ha valorizzato con intima adesione il ruolo, per nulla marginale nell’economia del racconto, di mamma Lucia. Al mezzosoprano georgiano Nino Chikovani non difettava il fisico del ruolo per la disinvolta Lola, ed appropriata era la sua linea di canto. Luciano Ganci, esperto nei panni di Turiddu, ha, tra le frecce del suo arco, voce ricca di colori e timbro smaltato, e sa destreggiarsi in scena: peccato, nel finale, per qualche forzatura nell’emissione, che non ha però inficiato una prova sostanzialmente convincente. Il baritono albanese Gezim Myshketa non ha accentuato troppo il lato vendicativo di compar Alfio: più dolente che truce la sua interpretazione nel duetto con Santuzza.
La regia di Teatrialchemici, alias Luigi Di Gangi e Ugo Giacomazzi, è tornata al Carlo Felice dopo il suo esordio nel 2019 con altro cast vocale. Una Sicilia archetipica, con sagome essenziali ad evocare le case e la chiesa, ed al centro un abbozzo – un semicerchio a due scalini – di antico teatro greco, come se le vicende di Turiddu e Santuzza fossero copioni di una tragedia eterna, affidata a personaggi più stereotipati che reali, in un tempo sospeso tra riti sacri e coreografie profane, e in ambienti dove le simbologie cristiane s’intridono di maschere pagane. In una rilettura di così denso simbolismo “steccava”, nella scena finale, l’irruzione di Alfio macchiato di sangue e col pugnale in mano. Un effettaccio che, a suo tempo, Giovanni Verga aveva stroncato in un allestimento in prosa di Cavalleria del discepolo Giovanni Grasso, tanto da fargli ritirare il copione. Non era il caso di riprovarci.
Angelo Magnano





