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La Cina ha vinto. E non solo per le auto elettriche. Ecco perché l’economia cinese si appresta a diventare egemone


E’ uscito recentemente l’ultimo libro di Alessandro Aresu “La Cina ha vinto”.

di Massimo Ferrari*

Deng Xiaoping è stato un politico, rivoluzionario e militare cinese. Dopo avere ricoperto ruoli direttivi nel Partito Comunista Cinese a più riprese nell’era di Mao Zedong, divenne leader de facto della Cina dal 1978 al 1992. Era conosciuto come il “capo architetto” della riforma economica cinese.

Anche se in copertina campeggia un monumento in costruzione dedicato al Grande Timoniere, l’autore non è un certo un  nostalgico delle follie ideologiche della Rivoluzione Culturale di Mao, che negli anni Settanta del secolo scorso affascinava tanti studenti occidentali. La Cina che ha vinto è quella pragmatica plasmata da Deng Xiaoping e dai suoi successori che hanno ripristinato il rigore degli studi e la selezione per merito, sancita dai severissimi esami cui vengono sottoposti gli allievi più capaci.

Alessandro Aresu scrittore, consulente ed esperto di politiche pubbliche. Si occupa da oltre 20 anni del rapporto tra geopolitica, economia e tecnologia. Scrive per Limes

I risultati si sono visti nell’arco di un paio di generazioni. A differenza di Alessandro Aresu, che è un consigliere scientifico di Limes ed ha lavorato per l’Agenzia Spaziale Italiana, io di Intelligenza Artificiale conosco ben poco. Ma una affermazione contenuta nel volume mi ha colpito. I ricercatori informatici che nel Mondo stanno affinando questa nuova frontiera tecnologica per metà sono cinesi. L’altra metà, quella che lavora nelle università o nelle imprese americane, sono di origine asiatica (anche gli indiani, naturalmente, si stanno ritagliando il loro spazio).

Risultato inevitabile da quando gli Usa hanno abrogato le quote etniche nell’accesso ai migliori college, pensate per tutelare le minoranze. Nel giro di pochi anni, gli studenti provenienti dall’Oriente si sono accaparrati il 47 per cento dei posti disponibili, scavalcando ampiamente la quota di americani bianchi (37%) e lasciando le briciole ai “latinos” (11%) ed ai neri (5%).

E, per restare all’industria pesante tradizionale, c’è un altro dato che ha dell’incredibile. Recentemente la Cina ha deciso di investire molto sulla cantieristica, civile e militare, scalzando il primato che storicamente apparteneva alla vicina Corea del Sud. Ebbene, in un solo anno, la Repubblica Popolare ha varato tonnellate di naviglio pari a quelle sfornate dagli Usa negli ottant’anni seguiti alla Seconda Guerra Mondiale. Oggi il 53 per cento dell’intera produzione planetaria è made in Cina. La Sud Corea si prende il 27%, il Giappone il 14, gli Usa lo 0,1. L’Europa tutta ha il 4%, nonostante l’eccellenza della nostra Fincantieri nelle navi da crociera.

Marco Ponti è stato professore ordinario di Economia Applicata al Politecnico di Milano, dove tuttora insegna e svolge attività di ricerca

Della potenza innovativa della Cina si è reso conto anche il prof. Marco Ponti il quale documenta gli ampi progressi nelle auto elettriche e nei pannelli solari, che hanno consentito di produrre su larga scala veicoli a basso impatto ambientale ed a costo contenuto. La penetrazione dei marchi cinesi in Europa e negli Stati Uniti è già ben tangibile, a dispetto delle barriere doganali che ne frenano una cavalcata altrimenti inarrestabile (e danneggiano in primo luogo i nostri consumatori).

Questa profonda mutazione è avvenuta nell’arco dell’ultimo quarto di secolo. Quando sbarcai per la prima volta a Pechino nel 2001, camminavamo un poco preoccupati per le strade della megalopoli gravate da una pesante cappa di inquinamento. La Cina era già diventata la “fabbrica del Mondo”, ma a prezzo di ricadute ambientali inaccettabili da noi in Occidente. Già nel 2012, a Shanghai, mi accorsi con sorpresa come quasi tutte le moto che incrociavo procedevano silenziose, perché a trazione elettrica. E negli anni più recenti sono stati compiuti altri “grandi balzi in avanti”.

Quello che, però, sia Aresu che Ponti omettono di dire – forse solo per ragioni di spazio o perché attenti ad altri settori merceologici – è l’enorme progresso compiuto dal Dragone nel settore del trasporto ferroviario e del trasporto pubblico in generale, che, a differenza di quanto avvenne negli Usa ed Europa nel dopoguerra, non viene sacrificato a vantaggio della motorizzazione privata, ma, pur con la rapida diffusione di auto e camion, mantiene e semmai implementa la propria egemonia.

Ancora nel 2001 non esistevano linee ad Alta Velocità in Cina. Alla stazione di Dalian vidi esposto un grande pannello con un treno avveniristico. Ma poteva sembrare la classica promessa velleitaria in cui tante volte sono incorsi i paesi in via di sviluppo, destinate poi a rimanere sulla carta, come successo nella Persia di Reza Pahlavi o nel Brasile del primo governo Lula. Già nel 2012 tutto era cambiato sul serio e potei viaggiare da Shanghai a Nanchino e poi fino a Pechino a 300 km orari.

Oggi sono operative in Cina oltre 42 mila chilometri di linee veloci che connettono tutte  principali città dell’est (a occidente, come è noto, ci sono i deserti dello Xinjiang e le montagne del Tibet, scalate comunque da treni che superano i 5.000 metri di quota). La griglia dei collegamenti su rotaia si compone di otto direttrici da nord a sud ed altrettante da est ad ovest, con tempi di percorrenza competitivi con l’aereo. Bastano appena otto ore per scendere i 2.100 km da Pechino a Canton.

Sul totale delle linee ad Alta Velocità in servizio nel Mondo, l’80 per cento è cinese; percentuale che sale al 90, se aggiungiamo quelle degli altri vicini, dal Giappone, alla Corea, da Taiwan a Bali. Alla nostra Europa, nonostante il Frecciarossa, il Tgv francese e l’Ave spagnola, resta più o meno il restante 10 per cento. America non pervenuta, a dispetto delle grida di Trump per modernizzare l’obsoleto sistema di trasporti terrestri degli States, che non riescono neppure a reperire i fondi per completare la linea veloce californiana da Los Angeles a San Francisco.

Ancora più impressionante l’evoluzione nei trasporti urbani. Nel 2001, se ben ricordo, funzionavano a Pechino tre linee di metropolitana, come nella Milano dell’epoca. Oggi la rete della capitale cinese sta raggiungendo i mille chilometri di estensione (a Milano, nonostante altre due linee entrate nel frattempo in esercizio, superiamo di poco i 110 km). Shanghai segue a ruota. E non sono solo le due grandi megalopoli a gareggiare per la gloria del regime. In tutta la Cina ci sono ormai ben 47 città (su poco più di 200 nel Mondo intero) dotate di metropolitane, automatiche e non.

Ad Hangzhou, nel 2012, quando la visitai, stavano per inaugurare la prima linea; oggi ce ne sono 12 con 519 km di sviluppo (più di New York, Londra o Parigi, che avevano cominciato a viaggiare sottoterra a fine Ottocento). Stesso discorso a Nanchino, che vanta già una rete di 530 km. Chongquing di linee ne ha 11 per 514 km di estensione, mentre Guangzhou (Canton) ha già raggiunto i 677 km su 16 linee. Per non parlare di centri di cui la maggioranza degli italiani ignora persino l’esistenza, come Hefei (sei linee con 239 chilometri) o Kunming, capitale dello remoto Yunnan subtropicale, che per ora si ferma a sei linee con 169 km di sviluppo.

Complessivamente in Cina sono stati (per ora) aperti 34.000 km di metropolitane, al ritmo di circa 1.000 km all’anno, quasi sempre inaugurati in dicembre come da tradizione consolidata. E a tutto ciò si devono aggiungere i sistemi di tram moderni che si sviluppano in adduzione alle reti sotterranee, le flotte di filobus ed autobus elettrici, i sistemi a guida autonoma, i treni a lievitazione magnetica, come quello noto che collega l’aeroporto di Shanghai al centro direzionale realizzato al tempo dell’Expo e che raggiunge i 400 km orari.

Difficile pensare che un paese che investe tanto sui trasporti ferroviari possa essere sopraffatto dalla diffusione della motorizzazione individuale, che pure è impetuosa, come accadde a noi negli anni Sessanta. Né si vede, come ipotizza Pont perché l’auto elettrica dovrebbe favorire le espansioni urbane a bassa densità, come lo “sprawl”, che caratterizza le sterminate periferie statunitensi. E’ certamente vero che le auto elettriche e la mobilità alimentata da pannelli solari abbattono in modo drastico l’inquinamento. Ma non certo la congestione viaria ed il consumo di quella preziosa risorsa che è il territorio. E ciò vale nei paesi densamente popolati come in Estremo Oriente, ma anche per gran parte dell’Europa, a cominciare dal nostro Paese.

Del resto persino gli Usa cercano di rimediare alla sconsiderata espansione urbana, favorita dall’uso indiscriminato dell’automobile, cercando di ricostruire, a grandi costi, almeno alcuni dei collegamenti rapidi su ferro che erano stati abbandonati frettolosamente per favorire gli interessi delle compagnie petrolifere. A Los Angeles è stata aperta da pochi giorni una linea suburbana di ben 93 km. Recuperando parte dei sedimi su cui viaggiavano i Red Cars della Pacific Electric. E quindi, anche nella California del Sud, l’auto non rappresenta più l’unico modo per spostarsi in città.

Massimo Ferrari

(Presidente Utp/Assoutenti)


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M. Ferrari

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