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Dirigente scolastico/ Educare, non produrre. La scuola tra sogno, realtà e futuro. Abbiamo perso la fiducia dei giovani, e non per colpa loro


Educare, formare, nutrire — non solo il corpo, ma anche la mente e l’anima. Allevare i giovani alla realtà che li attende: ecco l’essenza dimenticata della scuola.

di Franco Calcagno

Un progetto meraviglioso per uno Stato che voglia crescere e uno scopo fondamentale per una società che non si limiti a sopravvivere, ma desideri rigenerarsi. Eppure, in questo tempo iperveloce e ipertecnologico, la scuola rischia di perdere sé stessa rincorrendo la produttività, tentando — inutilmente — di diventare ciò che non è e non sarà mai: un’azienda.

Il mercato del lavoro non ha bisogno di ragazzi che sappiano solo ripetere contenuti o usare macchinari. Le aziende, per restare competitive, hanno già strutture proprie che formano il personale tecnico per adattarlo all’innovazione. Pensano, progettano, costruiscono, vendono, guadagnano. È la loro natura, ed è giusto che la scuola resti un passo indietro. Non per debolezza, ma per libertà. Per non essere asservita al ciclo produzione-consumo, per non perdere la sua funzione critica e generativa.

Che cosa può e deve fare, allora, una Scuola? Educare. Tirare fuori le potenzialità latenti. Alimentare la capacità di immaginare il nuovo. Contrastare la narrazione rassicurante del “così si è sempre fatto”. Non dobbiamo raccontare ai ragazzi le “esperienze dei padri o dei nonni” come modelli eterni, ma piuttosto dar loro gli strumenti per superare gli errori del passato.

Non è questa la rivoluzione più urgente? Una rivoluzione culturale. Non solo digitale. Un’innovazione profonda, fatta anche di silenzi, letture, dubbi, domande che restano aperte. E invece, oggi, quanti insegnanti hanno il tempo e l’energia per proporre pensiero critico, per approfondire, per ascoltare? Schiacciati tra burocrazie, sovrastrutture amministrative e riforme a metà, i docenti sono sempre più esecutori di una scuola che si trasforma in prestazione, anziché in relazione.

Emblematico è l’esempio della procedura concorsuale per l’assunzione dei nuovi docenti. Le ultime riforme hanno attenuato l’enfasi sui contenuti disciplinari, privilegiando la conoscenza metodologica e didattica. È prevista una simulazione di lezione, basata su una traccia estratta 24 ore prima. Un’idea valida in teoria, ma che in pratica, troppo spesso, si risolve in un’elencazione frettolosa e impersonale di tecniche e strategie. La lezione vera, l’interazione reale, il calore della relazione educativa — tutto ciò resta in ombra. Il risultato? Docenti che hanno studiato “come si insegna”, ma che non sempre riescono a trasformare le teorie in pratica viva, coinvolgente, umana. Troppi, ancora, non sono pronti a motivare, ad “educere”, cioè a tirare fuori, a far emergere. Sanno “cosa” insegnare, ma spesso faticano a dare senso e direzione a ciò che insegnano.

Abbiamo perso la fiducia dei giovani, e non per colpa loro. Non credono più al docente, ma a TikTok. Non è vero che la scuola debba digitalizzarsi di più; semmai dovrebbe fare il contrario. Non deve insegnare come si usa Instagram, ma perché lo usi, cosa ti aspetti da esso, e soprattutto, cosa stai sacrificando. Solo così potrà educare alla libertà.

Ma quali docenti possono affrontare una sfida del genere? Forse nessuno di coloro che sono nati e cresciuti nell’era digitale, immersi in un sapere elettronico, dove anche le domande più umane sono affidate a un algoritmo.

E allora? Iniziamo col dire che non servono altre riforme. Servono fiducia, tempo, lettura, scelte coraggiose. Serve un’alleanza tra generazioni per riscoprire che educare è l’arte più alta: è piantare un seme senza sapere quando e se germoglierà. Ma farlo comunque. Perché la scuola non deve preparare all’azienda. Deve preparare alla vita.

Franco Calcagno

 

 


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