Trucioli

Liguria e Basso Piemonte

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C’era una Liguria bellissima che ancora è tale. Il libro di Pezzini ‘Sull’ombra del gusto cucina ligure’


C’era una volta una Liguria bellissima che ancora è tale nel libro del giornalista Stefano Pezzini  in titolato ‘Sull’onda del gusto ligure’. E’ una storia di bellezze e bontà da tenere sul comodino.

di Gianfranco Barcella

Stefano Pezzini, giornalista pensionato della Stampa,<vecchio cronista, mai saggio>, da esperto e appassionato della cultura agro – alimentare del territorio ligure ha dato di recente alle stampe, con il contributo del celebre sommelier Christian Pasquarelli,  un libro prezioso che contiene tra l’altro le ricette di Lara e Claudio Pasqurelli, chef del ristorante (riservato ai soli ospiti dell’hotel) <Da Claudio> a Bergeggi, già insignito per trent’anni della stella Michelin, il tutto per i tipi di Marco Sabatelli Editore .

Claudio Pasquarelli e Stefano Pezzini

Il titolo: “Sull’onda del gusto ligure” è in sintesi l’assunto del Nostro che ci parla del nostro  cibo come prodotto culturale oltre che naturale. Si produce, si crea, si prepara e si consuma infatti in una terra, lambita dal mare ma non lo si sceglie ancora come ricordo di un piacevole soggiorno turistico, sempre a detta dell’autore.

In un’intervista Pezzini ha denunciato, infatti, che in Liguria non c’è ancora l’usanza da parte del visitatore, di portare a casa una delizia culinaria come souvenir. Almeno il pesto però si deve acquistare perché non è solo un condimento ma è divenuto ormai il simbolo dell’identità culturale della Liguria stessa perché è il risultato della sua umanità.

Massimo Zunino, presidente S.A.T. Servizi S.p.A. così scrive nella sua prefazione al volume: “La cucina tradizionale ligure racconta una storia di rispetto per il territorio, l’ambiente e le risorse naturali. Le ricette tramandate da generazioni sono il risultato di un rapporto profondo con la terra e il mare, raccontano di un armonioso equilibrio tra ciò che viene prodotto e ciò che viene consumato.Un’antica saggezza culinaria, che faceva della riduzione degli sprechi una pratica quotidiana, offrendo preziosi suggerimenti per affrontare sfide attuali come la gestione dei rifiuti.”

In effetti la cucina ligure è una cucina che profuma di mare, ma in sostanza è di terra. “Lo dice la storia- sostiene molto opportunamente Pezzini– la tradizione enogastronomica, fatta di erbe aromatiche, animali di bassa corte, verdure, castagne e naturalmente, olio extravergine di oliva. E il pesce era poco e povero, almeno dino al dopo guerra, quando il turismo di massa ha imposto una cucina di mare che non c’era se non in piccola parte nelle antiche cuciniere. E’ la Liguria a tavola, spesso definita cucina povera, ma con un fraintendimento: povera nel numero di materie prime (del resto come può un territorio, racchiuso in una manciata di chilometri, stretto tra monti e mare avere una moltitudine di prodotti), ma certo non avara di gusti elaborati con sapienza nel corso dei secoli.

Andiamo con ordine per una storia del gusto che affonda le sue radici comuni nel Medioevo. Si parte dalle Crociate quando Genova che stava<studiando> per diventare Superba, approfitta delle guerre per tessere rapporti commerciali con il mondo arabo e riaprire dopo i secoli bui, commerci con l‘Oriente misterioso e raffinato, basato sulla seta, zucchero, spezie che diventeranno sempre più ricercate e più preziose dell’oro. Sono vie che nei secoli a venire, saranno oggetto della grande rivalità con Venezia, l’altra dominatrice del Mediterraneo che guardava ad Oriente. La differenza tra Venezia e Genova è che la prima, le spezie le consuma anche in loco, la seconda le vende (a parte il pepe) e sceglie di insaporire le vivande con le erbe aromatiche.

Genova, la città simbolo, ma in effetti tutta la Liguria, considera il mare non come una fonte di cibo, ma come una grande via di comunicazione per andare in Oriente, certo, ma anche a Levante, in Sardegna, Spagna e oltre le Colonne d‘Ercole, lungo le coste portoghesi dell’Atlantico, a commerciare con <i Vichinghi>per portare a casa il merluzzo pescato e seccato alle isole Lofoten, lo stoccafisso, grande classico della cucina ligure.

Saranno i Genovesi a distribuirlo in tutta Europa, attraverso le vie del Sale, strade che dalla Riviera scavalcano Alpi e Appennini per portare sale, acciughe, stoccafisso, olio nella Pianura Padana e oltre, e far arrivare in Liguria vino, carne, formaggi.

Lo stoccafisso, per tornare a noi, oggi sotto forma di  brandacujun, è un patto irrinunciabile durante una vacanza in Liguria. E con la scusa dello stoccafisso, parliamo di olio, perché lo stocco nasce in acqua, ma muore nell’estravergine. Ancora una volta c’è lo zampino mercantile di Genova, che già nel Medioevo aveva il monopolio del commercio dell’olio, all’epoca prodotto in Spagna, nel Mediterraneo. Non era l’olio che intendiamo noi; serviva per l’illuminazione delle città e delle abitazioni, per i riti religiosi (il battesimo, estrema unzione, lumini votivi), per la lavorazione della lana e dei saponifici. Solo una piccola parte veniva utilizzata in cuciina, per la conservazione dei cibi o per friggere, non come condimento.

Bisognerà aspettare l’800 per uso culinario, gli inizi del ‘900 per la diffusione mondiale, con l’invenzione dei barattoli in banda stagnata e l’emigrazione di milioni di Italiani nelle Americhe. Attorno al ‘400 in Spagna che non produceva abbastanza olio, Genova impose attraverso i Benedettini, la coltivazione dell’olivo nella Riviera di Ponente. Una imposizione economica che trasforma il paesaggio della Liguria con i muretti a secco (oggi patrimonio immateriali dell’Umanità), la collina viene letteralmente disegnata, le case in pietra sono un tutt uno con i terrazzamenti.

E l’olio, pian piano, diventa un elemento alimentare. Sugli stessi terrazzamenti, fatti di <sudore, sangue e bestemmie> si coltiva anche un’altra grande eccellenza ligure: il vino. Oggi Pigato e Vermentio (anche spumantizzati) sono i vini dell’estate sulle tavole dei ristoranti alassini, ma c’era tempo che si producevano quasi esclusivamente vini rossi quali il Rossese, Granaccia, vino che era alimento e calorie assunte con puacere”.

Dopo una piacevolissima digressione sulle varie tipologie di vini si disquisisce sulla <cucina di terra> e la <cucina di mare>, per quanto riguarda quest’ultima i Liguri non sono stati da sempre vocati alla pesca a parte quelli che abitavano a Camogli, Pra e Noli. Il  mare è sempre stato visto principalmente come una via di comunicazione, di scambi commerciali, a volte di nemico.

Da metà ‘800, con l’avanzata del turismo, le cose cambiano. Gli stranieri che arrivano dal Nord per il Gran Tour d’Italia vedono il mare e chiedono il pesce a tavola. E la Liguria si adegua. Non c’erano pescatori, ma dal Sud, spesso arrivati in barca a remi, arrivano pescatori campani (molti da Cetara), Siciliani, Pugliesi, Marchigiani. Sono loro che pescano mentre cuochi e cuoche <inventano> ricette, spesso semplicemente sostituendo le carni dei polli e conigli con quelli di pesce.

Negli anni del boom economico , poi, chi andava in spiaggia voleva piatti di mare. Nella Valle Arroscia, là dove< la montagna è ammantata di gente e animali>, scriveva Francesco Biamonti, raccontando le Alpi Marittime, oggi divenute Alpi Liguri, nasce invece la Cucina Bianca. E’ un territorio aspro, dove regna da sempre la pecora briagasca, che deve il suo nome al toponimo  che identifica i paese di Briga Alta, in provincia di Cuneo e ritorna in La Brigue, paese francese della Val Roya. E’ un itinerario di cultura, tradizioni, freddo, sudore, sapori, quelli della Cucina Bianca, fatta di farinacei, latticini ed ortaggi di montagna, poco colorati come le patate, i porri l’aglio di Vessalico, le rape, il brusso e la toma.

Si sviluppa tra Liguria e Piemonte, Italia e Francia, sui sentieri senza frontiere, percorsi dalla transumanza, e propone specialità come l’aiè, il flan di scorzone, gli <streppa e caccia là>, pasta preparata in alpeggio, frutto di un semplice impasto di acqua e farina, strappata a pezzetti e gettata direttamente nell’acqua bollente con rape e foglie di cavolo e condita col brusso.

La cucina mediterranea, l’olio è sempre stato un bene prezioso da usare con parsimonia <cu u truncu>, la dose che si otteneva intingendo un rametto nella bottiglia>. La strada della Cucina Bianca costituisce un percorso attraverso i territori montani, attorno al Monte Saccarello, il monte più alto della Liguria, dalle cui rocce nasce l’Arroscia. Restiamo nell’entroterra, tra i muretti a secco, dove ai bordi cresce il fico, un altro <pane del passato>. A Moglio, frazione collinare di Alassio, le chiamano <paiette> in valle Impero <pan de fighi> . La tradizione ligure dei fichi, un <pane> al pari delle castagne, custoditi nelle loro foglie è stata dimenticata.

Per fortuna “Sull’onda del gusto ligure” ci aiuta a ricordare. Il capitolo poi dell’Alfabeto del gusto ligure dovrebbe essere adottato come piccolo manuale di educazione alimentare per le scuole primarie.

La lettura del saggio di Stefano Pezzini mi ha riconciliato con la mia terra <che orla il mare> ed in particolare con la mia Savona che si ritrova senza gabinetti pubblici, con strade un poco dissestate, una raccolta differenziata dei rifiuti in regime di prorogatio, un semaforo che era coperto dalle fronde degli alberi (in Corso Ricci davanti all’ex caserma dei Carabinieri) e mi induceva ad attraversare per intuizione. E non dimentico l’incompiuta di via alla Strà dopo la frana di sei anni fa.

Se avessi l’eloquio di Stefano farei, metodicamente, sui social, il notista politico e sociale. Mi limito ,ogni tanto, a leggere i seguenti versi di Guccini:“Bisogna che lo affermi fortemente/ che, certo, non appartenevo al mare/anche se Dei d’Olimpo e umana gente/ mi spinsero un giorno a navigare/ e se guardavo l’isola petrosa/ulivi ed armenti sopra a ogni collina/ c’era il mio cuore al sommo s’ogni cosa/ c’era l’anima mia che è contadina;/un’isola d’aratro e di frumento/ senza vele, senza pescatori,/il sudore e la terra erano argento/, il vino e l’olio erano i miei ori./

Gianfranco Barcella

 


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G.F. Barcella

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