Servi della Gleba del XX secolo. Cravarezza, la ‘Terra di Mezzo’.
di Giuseppe Testa
La zona di Cravarezza, nel versante padano delle Alpi Liguri, fa parte del Comune di Calice Ligure. Iniziando dai primi dell‘800 fu tentata una colonizzazione di quel territorio, offrendo cascine e terra in mezzadria a coloni che sognavano una vita migliore. Dopo un secolo e mezzo tutta la zona è stata abbandonata, per le durissime condizioni di clima ed isolamento…
Questa la storia vera di Maria, bambina a Cravarezza- Nel mezzo del cammin di nostra vita, mi ritrovai in una selva oscura … se il Divino Poeta avesse percorso le mulattiere di Cravarezza, o delle zone limitrofe, in mezzo a boschi dove a fatica gli uomini avevano ritagliato piccole radure coltivabili, avrebbe forse vissuto realmente lo smarrimento iniziale di cui scrive nella sua Commedia.
Sebbene il versante al di là dello spartiacque alpino disti dal Finalese poco più di una decina di chilometri, tutta la zona, oggi come in passato, è ricoperta di boschi. Si tratta di luoghi che i nostri nonni conoscevano bene e frequentavano. Qui si parlava una lingua diversa, molto influenzata dai dialetti Piemontesi. Erano millenni che le mulattiere univano le comunità dei due versanti, zona cerniera e cruciale tra mare e Pianura Padana: prodotti come sale, pesci, olio ed altro, venivano scambiati con cereali, carni e grano. File interminabili di muli portavano il materiale ferroso alle varie ferriere, mentre altri carichi procedevano verso gli imbarchi marini.
Questa “Terra di Mezzo” è stata per secoli la zona, quasi neutra, degli incontri e dei traffici per le comunità dei due versanti. E’ con le grandi opere di comunicazione del secolo XIX (ferrovia e Litoranea), che è venuto a cessare completamente questo rapporto economico, culturale e sociale tra le comunità al di qua ed al di là delle Alpi Marittime, iniziato nella preistoria: il Finalese, non più separato da confini naturali o di Stato con i paesi limitrofi della costa, perse il rapporto simbiotico col basso Piemonte e la Pianura Padana.
Oggigiorno queste strade non le percorriamo più, se non in rare gite, per la caccia o la raccolta funghi: sono ormai, ai più, sconosciute. Tutto quel versante, le zone di Fobè (Fobello), Cravarezza e zone limitrofe, sono ancora così vicine fisicamente ma lontane nelle nostre frequentazioni. Sono oggi zone quasi totalmente spopolate, ma rimaste come erano in passato, con le stesse strade di allora, le cascine spettralmente disabitate, ridotte ormai a ruderi, ed il bosco che riconquista le piccole radure che l’uomo a fatica gli aveva strappato per coltivare. Zone viste oggi come luogo pericoloso per la facilità di smarrimento, per l’orrido dei luoghi impervi e la difficoltà di orientamento dovuta alla carenza di punti di riferimento.
Oggi dì Cravarezza, nell’immaginario collettivo, rappresenta un luogo negativo e oscuro, che fa paura e che è meglio evitare; luogo che è stato abitato da uomini trogloditi e brutali, ricco di episodi nefasti e criminali, amplificati dalla tradizione orale; terra di mezzo tra il Finalese e la Valbormida, tra la Ligurie ed il Piemonte, tra ciò che si conosce e ciò che in quanto ignoto fa paura, nè mare nè collina nè montagna. Un luogo ove è facile perdersi, metafora ancestrale del bosco, luogo tetro e pauroso, dove va solo chi deve andare. Anche per coloro che qui sono nati e ci hanno vissuto è stato ed è facile perdersi. La natura rigogliosa, che si rigenera e muta forma continuamente, cancella, nasconde o modifica i punti di riferimento. La zona impervia, gli orridi che si manifestano all’improvvivo, i numerosi pendii, i rivi dormienti ma che diventano tumultuosi dopo le piogge, e soprattutto la difficoltà di orientamento per via del manto boscoso, fanno si che sia facile perdere l’orientamento.
Per i Finalesi Cravarezza incarna questo luogo comune: un posto che fa quasi venire i brividi, oggi unico sito al di là dello spartiacque rimasto ad un comune del versante marino, cioè Calice Ligure.
Le persone che qui vissero, hanno fatto vita dura: clima rigido, tanto lavoro e una situazione di isolamento fisico e culturale. Cascine isolate per mesi dal freddo e dalla neve, uomini al lavoro in miniera o come coloni, animali nelle stalle e terra da coltivare, con una scuoletta pluriclasse che si frequentava quando si poteva, portandosi un legno da casa per scaldarsi; poca gente di passaggio, poche carovane di muli (che preferivano altri percorsi), qualche cacciatore e magari dei latitanti. I malfattori erano infatti numerosi, attirati dai luoghi impervi, ottimi nascondigli in cui rifugiarsi, e dalla vicinanza (in passato) del confine, oltre il quale non potevano essere perseguiti: da qui si poteva arrivare in poco tempo a Mallare e beffare così la giustizia del Marchesato, e viceversa. Anche le poche osterie, sperdute, qui non avevano certo lussi né frequentazioni signorili. Si trattava di luoghi da vino, dove fatica e povertà si incontravano, e non era difficile ci scappasse la rissa, uno dei rari “divertimenti”, immancabile quando il vino eccessivo ingigantiva antiche rivalità o non faceva più tollerare le canzonature o la disperazione di un’esistenza estremamente dura.
Queste zone hanno mantenuto forte il proprio genio loci, creato in secoli di frequentazioni, grazie al bagaglio di storie e sofferenze di coloro che qui hanno vissuto. E lo hanno fatto anche grazie alla selvaggia bellezza che qui regna, che riesce anche senza l’Uomo, che ormai non ci vive più, a mantenere l’Anima di questo territorio. La Modernità, a causa della mancanza di strade per i mezzi a motore, non ha potuto coinvolgere Cravarezza nel modello tipico di antropizzazione dell’ultimo secolo. Per questo motivo è oggi un luogo magico e dimenticato, riservato ad esperti cacciatori o fungaioli; pochi i taglialegna che qui operano, creando, nei tratti interessati, gli unici squarci che permettono di bucare la coltre verde che sovrasta il suolo, vedere il cielo e magari un po’ di panorama.
Cravarezza: cenni di storia- La zona di Cravarezza occupa una fetta del versante Padano delle Alpi Liguri. Appartenente ad una più estesa ed antica foresta, anticamente detta “il Gualdo di Bormida“, ha come confine lo spartiacque, mentre a valle è nelle vicinanze del torrente Bormida (di Pallare). Ai lati i termini sono la Costa di Cravarezza, che separa da Benevento e dal territorio di Mallare (in basso il Ritano Grosso e Rocca Tavana), mentre a ponente è la zona detta Fobè (Fobello, cioè Faggio Bello). Anche la zone limitrofe a questi confini sono ricche di boschi, ma presentano orografie differenti e storie differenti. Questo territorio, dalle caratteristiche particolari, nel corso degli ultimi millenni ha subito fasi diverse: ad epoche glaciali si sono alternati periodi più temperati.
E’ nel terziario che il territorio si conforma allo stato attuale, ma con specie vegetali diverse per via del clima tropicale. Con il Quaternario il clima si raffredda e molte specie scompaiono. Nel Pleistocene (2 milioni di anni fa), all’inizio del Quaternario, una serie di glaciazioni si alternano a lunghi periodi di disgelo. Questa alternanza climatica ha favorito il lento spostamento di ecosistemi vegetali da nord a sud e viceversa. La presenza della catena alpina ha bloccato, almeno parzialmente, questo spostamento: alcuni tipi di piante sono rimaste bloccate in queste zone.
Cravarezza, con i suoi boschi, era già sfruttata in età preistorica, seguendo gli avvenimenti politici di tutta questa parte di territorio fino ai giorni nostri. Allora il bosco era risorsa irrinunciabile e indispensabile per l’economia e la sopravvivenza, come lo è anche oggi, sebbene in maniera diversa. Erano due le comunità che, in base ad accordi immemorabili e sconosciuti oggi, sfruttavano e gestivano anticamente questa Selva: gli uomini di Carbuta e quelli di Mallare.
Era una zona disabitata, frequentata da sempre da lavoratori stagionali, che si ricoverano in povere abitazione di pietra, nel periodo strettamente legato al lavoro. Dice di essa il Beretta nel XVII secolo: … e perché è questo (territorio) … poche capanne all’uso di montagna … L’occupazione del misero rifugio, abbandonato l’anno precedente, avveniva dopo averlo riempito di sterpaglie e avervi dato fuoco. Questo, insieme al fumo, faceva uscire tutte le potenziali serpi e animali che nel frattempo lo avevano occupato, permettendo agli uomini un più sicuro utilizzo. Anticamente il territorio ricadeva nella giurisdizione di Osiglia. I suoi boschi, proprietà dei Marchesi di Savona e Finale, furono venduti nel 1261, non senza feroci recriminazioni, alla Magnifica Comunità di Rialto, e restarono sotto questa proprietà fino a che, ai primi dell‘800, i Francesi demanializzarono tutti i boschi, facendoli diventare proprietà dello Stato.
Come proprietà statale fu usata per saldare un debito di guerra. Avendo una facoltosa famiglia della zona provveduto al rifornimento di viveri, legname, foraggio per cavalli ed altro alle truppe francesi, in quei turbinosi anni seguenti la Rivoluzione Francese, impossibilitata l’amministrazione statale al saldo del debito in denaro, questo fu saldato concedendo la proprietà di numerosi lotti di terreno della intera zona di Cravarezza.
Per i primi tempi questa famiglia proseguì lo sfruttamento della zona con lavori stagionali, come il taglio del legname, la raccolta delle castagne, funghi e tutto quello che si ricavava nel bosco. In seguito, con l’apertura di una miniera di grafite, in zona isolata e difficilmente raggiungibile con tragitto giornaliero, fu necessario provvedere ad un nuovo modello insediativo.
Le casupole di pietra furono sostituite da cascine vere e proprie, e queste furono insediate da coloni con il compito di lavorare in miniera, inoltre di accudire animali, coltivare le radure strappate nel tempo alla foresta, praticare attività agricole annuali oltre che le solite stagionali. A queste famiglie veniva concessa l’abitazione, in cambio di parte del prodotto o raccolto, che doveva essere consegnato alla famiglia proprietaria, secondo certi accordi. Cravarezza da bosco disabitato diviene così una località abitata, anche se non con un nucleo vero e proprio ma con una serie di cascine sparse su un territorio vasto e impervio.
Terminato lo sfruttamento della miniera, seguendo una prassi simile a tante zone alpine, poco a poco le famiglie di coloni si sono trasferite in altri luoghi, e Cravarezza è tornata ad essere selvaggia e spopolata.
Maria di Cravarezza- Era il 1929, un anno nevoso, freddissimo, di grande crisi economica e recessione mondiale. Quell’anno a Cravarezza nacque Maria Rosa, per tutti Maria. Le borse crollavano, il mondo economico era nel caos, ma nelle cascine di Cravarezza di ciò si era all‘oscuro. Qui la vita era uguale, e dura, come sempre. Una vita quasi primitiva, svolta ai ritmi della natura, senza orologi ed energia elettrica. Il dottore raramente arrivava in questi luoghi, una contadina del luogo fungeva da ostetrica, il prete si vedeva saltuariamente, fino a quando finalmente fu costruita una chiesetta, ma solo per la messa o le occasioni particolari.
La prima fu fatta agli inizi del secolo, poi crollata e rifatta in altro luogo decenni dopo. Il prete arrivava da Carbuta, e doveva percorrere un lungo tragitto in mulattiera. Lo stesso per la scuola, diventata possibile quando fu ricavato un piccolo locale nei pressi della chiesa. Ogni bambino doveva percorrere un certo tragitto nel bosco, su sentieri poco battuti, spesso con la neve e condizioni di clima impegnative. Il vero problema era strappare i figli alle famiglie, che mal volentieri li mandavano a scuola: i contadini del luogo la vedevano come perdita di tempo, mentre i giovanissimi servivano per far pascolare gli animali, e tutti gli altri piccoli lavori della campagna. Era disponibile nella zona qualche osteria, ed una miniera, unica fonte di reddito per i poveri abitanti. La lingua era molto simile al dialetto mallarese, ed anche la comodo andare a Mallare a comprare, così vicino rispetto a Calice e Carbuta, di cui il territorio di Cravarezza fa parte.
Il freddo in inverno costringeva in inverno gli uomini a casa, costretti a fare lavori come aggiustare i ferri, o passatempi come intarsiare legni, o aggiustare oggetti ed attrezzi. La sera davanti all’indispensabile fuoco si chiacchierava in famiglia, al buio per risparmiare l’olio della lucerna, mentre le donne cucivano e rammendavano. Storie di streghe, fantasmi, tradizioni, magari fanfaronate o prese in giro verso altre persone…tutto serviva a socializzare, a strappare un sorriso o una speranza di vita migliore.
Le cascine erano molto distanti tra loro, di rado ci si vedeva. Era festa quando si poteva “vegliare“ insieme a qualche famiglia vicina. Era indispensabile il Mutuo aiuto per i lavori agricoli, nei casi di malattia o imprevisti. Erano poche le strade che la attraversavano: i mulattieri preferivano altri percorsi. L’inverno diventava, con la copiosa neve, un periodo di isolamento fisico ed anche sociale e culturale. Si poteva attendere settimane, o mesi, per vedere un estraneo, un boscaiolo, qualcuno che si era smarrito, spesso un cacciatore oppure le guardie a cavallo dei padroni, che tutto qui possedevano dalla terra, alle case, alle piante, e indirettamente anche i corpi dei loro braccianti fino quasi alle anime, asserviti in una sorta di moderna schiavitù. Queste giravano in Cravarezza per controllare l’operato dei coloni, la salute degli animali e l’andamento delle semine e delle coltivazioni. Se qualcosa andava storto, magari moriva un animale, o questi intravvedevano qualche irregolarità, bisognava giustificarsi con i padroni, e si rischiava lo sfratto. Ne sa qualcosa Maria di quella volta che morì una mucca, che era inoltre fonte di sopravvivenza per la famiglia stessa. La sua famiglia visse nel panico, finchè fu accertato che non era responsabile dell’accaduto.
Per fortuna ogni tanto si poteva andare a Messa o qualche funzione religiosa. Per i ragazzi una occasione per scambiarsi fugaci sguardi e per gli adulti un momento di incontro e di scambio di notizie, sia per ciò che riguardava il tempo, le semine, la compra-vendita degli animali, che per quelle più personali. Maria era nata i primi di Gennaio, rischiando di morire con sua madre. La neve era alta e l’ostetrica arrivò in ritardo. Era toccato al padre sfidare la bufera per andarla a chiamare, diverse cascine più in là. Fu un miracolo, in quanto la donna arrivò appena in tempo, mentre le cose si stavano mettendo male. Al pianto liberatorio della neonata si unì quello della famiglia. Per la registrazione in Comune, a Calice Ligure, si dovette attendere una settimana. La neve bloccava le mulattiere.
Da grande Maria, per questa discrepanza tra il giorno vero di nascita, e l’effettiva registrazione, ironizzava prolungando la festa di compleanno per più giorni. Pochi giorni e fu affidata alle due sorelle: la mamma, ancora debole, doveva fare la sua parte per la sopravvivenza della famiglia. La casa era povera e dignitosa. Il fuoco del camino non mancava mai, vista l’abbondanza della legna e …del freddo. Spesso ghiacciavano le cose dentro casa. Il camino scaldava la casa ma nello stesso tempo affumicava le castagne al piano di sopra. Suo padre ripeteva sempre: se vogliamo passare l’inverno, servono 100 chili di castagne per ogni bocca! La raccolta era quasi un gioco per noi, ma poi castagne a colazione, pranzo, cena…e ancora grazie! Però quando Maria mangiava, si metteva un “mandillo“ sulla testa, che copriva anche il piatto, per evitare che i babolli delle castagne del piano di sopra, durante l’essiccazione, uscendo dal frutto le piovessero nel piatto, essendo il soffitto un tavolaccio di castagno.
Gli estranei, e certi compaesani, erano temuti, forse per colpa di notizie volontariamente inquietanti da parte dei genitori di Maria, forse per dissapori antichi: chi era alcolizzato, chi picchiava la moglie e i figli, chi si prostituiva per ricavare due soldi (una povera donna sola con un bambino), un altro aveva un rapporto incestuoso con la figlia…erano racconti inventati, creati per incutere paura, o storie vere? Come credere a quella del padre che uccise la figlia, seppellendola nel letame, per rubarle gli orecchini?
Scoprii anni dopo, grazie a informazioni di don Gianluici Caneto, che questa era una storia vera. Certo è che questo tipo di educazione metteva sfiducia nel prossimo e, invece di portare modelli positivi da imitare, portava modelli negativi come esempio da non seguire. Altra cosa era che, vista la zona impervia e la presenza del bosco, vi era paura da parte dei genitori che le bambine si allontanassero e si perdessero: la paura dei pericoli era un deterrente perchè non si allontanassero troppo.
La vita di Maria fu comunque serena, grazie a quella risorsa che hanno i bambini nel vedere il bello e sapersi meravigliare. Grazie alle sorelle, Maria non era sola. Non avendo una bambola, bastava recuperare una gallina e vestirla con due stracci ma … senza che mamma se ne accorga! “Se si spaventa non mi fa più le uova“! Le grotte vicino a casa, fresche tutto l’anno, servivano per conservare salumi e formaggi, e toccava a Maria ed alle sorelle il ruolo di vivandiere. Quei piccoli laghetti nei pressi erano per i giorni caldi, quando si poteva giocare con l’acqua sempre così fresca. E che bello rubare un ovetto dal pollaio, in estate, e farlo cuocere direttamente su un lastrone di pietra arroventato dal sole. E quel cuginetto, che vedevo così poco perche faceva il pastore, che una sera non rientrò a casa…. L‘indomani i genitori lo trovarono morto stecchito. E‘ morto di “fruscio“ (dissenteria, diarrea), dicevano rassegnati i parenti a quella perdita immensa.
Maria non poteva sapere invece che, spinto da gran fame, aveva mangiato pesche acerbe che, essendo acidissime, gli hanno provocato una peritonite fulminante. Egli ben sapeva che non avrebbe dovuto mangiarle, ma sapeva anche che se avesse atteso la maturazione altri sarebbero arrivati prima di lui. Come dimenticare quel cieco della cascina accanto, che girava da solo nei boschi giorno e notte, e aiutandosi con l’istinto, le mani ed i sensi rimasti cercava piante nel bosco per farne giunchi intrecciati, e conduceva una vita quasi normale? I suoi occhi erano bianchi completamente, senza pupilla, e Maria raccontava che da piccolo si era rovesciato addosso del minestrone bollente, episodio che gli tolse la vista.
Le feste religiose erano occasioni speciali. Il vestitino nuovo, il velo in testa, la candelina in mano, Maria diventava …Figlia di Maria! Un occasione per ritrovare tutta la comunità. Anche se la festa più bella, una volta l’anno, era alla casa padronale alla ferriera. Tutti i contadini portavano i loro „doni“ ai proprietari, sotto forma di derrate agricole o animali, e questi distribuivano scampoli di stoffa per ricavare vesti per i loro manenti, ed altre cose necessarie. Poi focaccini, un po‘ di festa, ed un rudimentale cinema ottenuto proiettando delle figure luminose su un muro.
Venne il giorno che la miniera di grafite fu chiusa. A poco a poco le famiglie abbandonarono Cravarezza. Le cascine vennero abbandonate, le tegole furono rimosse per evitare la tassazione sulle case. Ciò ne accellerò il crollo. Quando toccò partire alla famiglia di Maria, fu caricato un carro con i pochi attrezzi agricoli, ed un unico baule di vestiti di tutta la famiglia. Il carro dovette passare per Mallare, Altare, Savone e Finale, essendo l’unica via carrozzabile. Maria e famiglia dovettero salire a piedi sullo spartiacque per una mulattiera e quindi scendere verso il Finalese.
Il mare, che nelle rare apparizioni, fatte solo alla festa della Madonna della Neve, sembrava un miraggio per Maria, lentamente si avvicinava, e riempiva la bimba di timore e meraviglia. Un senso di disagio restava dentro, all’idea di abbandonare Craverezza. Qui ci torno quando voglio, pensò Maria consolandosi. In effetti Cravarezza ti rimane dentro, con questo rapporto primordiale con la natura, così diretto, senza intermediari, che ti dà sicurezza e ti accoglie come una madre, vissuto dagli Uomini dalla preistoria in avanti. In effetti Maria nella sua lunga vita è tornata spesso a Cravarezza, ed in uno delle ultime volte ebbi il piacere di accompagnarla. Vederla dialogare con gli alberi, le pietre, la natura fu straordinario, rigidamente nell’antico dialetto. Cercava riscontri e ricordi. Benchè anziana, sembrava un’altra persona tra li impervi sentieri, ritrovando quell’agilità e quel piede sicuro di chi qui è nato e vissuto. Vederla stupita e rattristata dall’abbandono, o dalla selvicoltura selvaggia, una volta inconcepibile, fu penoso. Ancora di più guardare i ruderi delle cascine, cercando di ricordarle, compresi i profumi di allora, i visi e le voci degli abitanti. Rimase impietrita davanti alla sua. Il ripensare agli avi, al freddo, alle fatiche, a quella vita allora così normale e che oggi sembra fiabesca, fatta di sogni e speranze future per addolcire quel presente difficile. Come può essere possibile capire ciò che provava, quel giorno? Poi si volse, vide i suoi nipotini che ignari giocavano, si rincuorò ritrovando un senso a tutto il suo passato. Oggi Maria è molto anziana, non può più andare a Cravarezza, ma i nipoti che conoscono la storia, nei pranzi domenicali le dicono spesso: Nonna, raccontaci di quella volta che…..ed il viaggio a Cravarezza continua, in modo diverso, e quel filo che tutto unisce ancora una volta non si spezza.
Giuseppe Testa
PS. Le notizie sopra riportate sono tratte dai ricordi di Maria, che l’Autore ha contestualizzato a livello storico. Si tratta quindi di una storia vera, con quel margine di errore che può esserci nel ricordo di un anziano.