Quest’anno sono quaranta. Sono passati 40 anni dalle bombe di Savona, da quelle dodici esplosioni che dilaniarono la città, con il tragico epilogo di un morto, oltre venti feriti, case devastate, stragi evitate per un soffio. Il 30 aprile ricorre l’anniversario della prima bomba, quella di via Paleocapa, davanti al portone della casa in cui abitava il senatore Franco Varaldo. Quarant’anni: e nessuno ha mai scoperto chi è stato e perché.
Se dovessimo raccontare una delle tante stragi impunite in Italia, adesso potremmo iniziare con la storia dei processi, dei testimoni inascoltati, delle sentenze capovolte. In fondo, è quello che è successo o sta accadendo, con pochissime eccezioni, in tutti i casi in cui lo stragismo ha avuto un epilogo giudiziario. Un finale dolorosamente “normale”, insomma, in cui sono inevitabilmente inciampati i giudici, gli avvocati, l’opinione pubblica e così via: come per Piazza Fontana, per la strage di Brescia, tra i ghirigori innocentisti delle Corti d’Appello e qualche sussulto della Cassazione, per l’Italicus e via discorrendo. Ma quella delle bombe di Savona non è una vicenda normale, non assomiglia quasi in nulla alle tante storie maledette dello stragismo italiano. Neppure nell’epilogo: per le bombe di Savona non c’è mai stato nessun processo e nessuna condanna.
Ci sono state, è vero, le bombe. Dodici esplosioni, dal 30 aprile 1974 al 26 giugno 1975. Sette ordigni sono scoppiati in quindici giorni, nel “novembre di sangue” savonese. E c’è stata una magistratura disattenta e distratta, e qualche inquirente più curioso degli altri opportunamente trasferito ad altra sede. Ma, in fondo, a Savona non c’è stato neppure bisogno di insabbiare granché. La storia si è insabbiata da sola, è stata quasi da subito lasciata disseccare per mancanza d’acqua, con buona pace della vittima e dei tanti feriti e sinistrati.
Già, ma perché? Cosa aveva questa storia di così pericoloso da dover essere subito dimenticata, tanto da fare di Savona una casella vuota, ancora oggi, nel mosaico della strategia della tensione? Davvero quattro balordi, conosciuti da tutti e controllati a vista, hanno potuto mettere a ferro e fuoco per un anno la città? O, forse, quella che apparentemente è solo una storia di paese, una vicenda di periferia nasconde un segreto spaventosamente grande, un nodo scorsoio che ha causato la fine di una strategia eversiva (e forse l’inizio di un’altra)?
Qualcuno – il senatore Paolo Emilio Taviani – lo aveva già detto in tempi non sospetti. E qualche ricercatore sta lavorando per cercare di scoprire cosa si nasconde veramente dietro queste dodici stranissime esplosioni “chirurgiche”. Molti testimoni finora inascoltati (da Guido Salvini a Vincenzo Vinciguerra, dalla CIA agli uomini dell’Ufficio Affari Riservati, e molto altro ancora) hanno dato la loro versione, ma vi sono ancora molte verità che non sono state narrate. Alcuni documenti finora dimenticati potranno aprire nuovi squarci su mandanti ed esecutori degli attentati. E, magari, potranno aiutare a dare finalmente un senso a quel cippo dimenticato in un angolo di via XX Settembre, che ricorda Fanny Dallari.
Massimo Macciò