Trucioli

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Quel Natale di sangue a Savona. Eccidio di patrioti al Priamar: tre donne e tre uomini


Signor Sindaco, Signor Gen.Patrone,cari familiari dei martiri del Priamar,cari amici, care compagne e cari compagni,oggi siamo qui convenuti per ricordare il sacrificio di sei patrioti savonesi, tre donne e tre uomini, trucidati per rappresaglia il 1° novembre del 1944. Come è stato già ricordato, Paola Garelli, Franca Lanzone, Luigina Comotto, Pietro Cassani, Giuseppe Baldassarre e Stefano Peluffo,vennero prelevati dal carcere cittadino per essere condotti nel fossato dell’antica fortezza del Priamar, dove vennero fucilati da un plotone composto da militi fascisti.  La sanguinosa vendetta scattò in meno di 24 ore, quale esemplare e crudele risposta all’uccisone di Giorgio Massabò, maggiore della Guardia nazionale repubblicana, avvenuta il giorno prima.

Un figuro tristemente noto, questo Massabò, che il 27 Dicembre del 1943 si era reso responsabile, in qualità di presidente del Tribunale straordinario, della condanna a morte di sette antifascisti, fucilati al forte della Madonna degli Angeli. Come per i martiri del Priamar su di loro si era abbattuta la rabbiosa reazione fascista per l’azione partigiana condotta alcuni giorni prima presso la trattoria della stazione ferroviaria.

 Anche quell’eccidio ricordato come il “tragico Natale di sangue“, doveva essere un monito eclatante e sinistro rivolto al giovane movimento di Resistenza che dopo l’8 Settembre, pur tra mille difficoltà e inadeguatezze, nel savonese come in ogni parte dell’Italia centro settentrionale, dall’Appennino ligure – piemontese, alle valli alpine, dalle grandi città industriali del nord alle campagne della pianura padana, prendeva corpo e vigore, sia sotto il profilo politico che della lotta armata.

Per questo, la rappresaglia del “Natale di Sangue” voleva essere al tempo stesso un macabro avvertimento verso la popolazione civile che manifestava una evidente e diffusa simpatia e solidarietà verso le forze partigiane, mentre dava sempre più chiari segni di avversione verso la guerra, le brigate nere e le truppe di occupazione germaniche.

Alla fine dell’ottobre del ’44, dunque, a quasi un anno di distanza, la giustizia partigiana veniva ora a colpire il responsabile di quell’atroce delitto e per questo, in tutta fretta, la sera del 31 ottobre venne costituito un sedicente tribunale militare che senza alcun processo decise l’immediata esecuzione degli ostaggi.

Il ricordo di queste vittime, la rievocazione dei fatti che portarono alla loro cattura e al loro assassinio, come tanti altri episodi che hanno scandito la lotta partigiana nel savonese, si riannoda in tutta evidenza alla storia di una città e di una Provincia, non a caso decorate di medaglie d’oro al valor militare, che già negli anni Venti e nei decenni successivi, si caratterizzarono per la loro fiera opposizione al fascismo, in cui emergeva la loro anima democratica e popolare.

Non c’è bisogno di ricordare qui, infatti, che un lungo filo rosso lega le vicende della Resistenza savonese con quell’antifascismo militante che venne già a dispiegarsi nel periodo del cosiddetto “fascismo rivoluzionario delle origini” e poi in quella fase seguente che vide la violenta affermazione e il consolidamento della dittatura Mussoliniana.

Emblematico fu a tale proposito l’eco suscitata in tutto il paese, dal famoso processo di Savona, svoltosi dal 9 al 14 settembre del 1927 a carico degli antifascisti responsabili dell’espatrio clandestino di Filippo Turati, avvenuto nel dicembre dell’anno precedente.

Se, infatti, clamoroso, fu lo smacco subito dal regime con la fuga dell’anziano e malato leader socialista, convinto a fuggire dall’Italia da Carlo Rosselli e Sandro Pertini, ancor più clamorosa fu la sentenza, che è rimasta impressa nella nostra memoria collettiva, come una delle rare manifestazioni di coraggiosa autonomia e indipendenza della magistratura di quel tempo, al punto che risulta essere stato l’ultimo procedimento penale per reati di natura politica giudicato da un tribunale ordinario.

 Infatti, le “leggi fascistissime”, varate dopo la svolta del 1925, avevano via via conferito al Partito nazionale fascista il necessario apparato legislativo e repressivo per dar vita ad un regime antitetico ai valori liberali e votato alla ferrea dottrina totalitaria.

Sciolti i partiti politici e i sindacati, chiusi i giornali di opposizione, abolita ogni parvenza di vita democratica, vietata ogni possibile manifestazione di dissenso al fascismo, vennero istituiti il confino di polizia, aumentati i poteri ai prefetti, ripristinata la pena di morte, che, è bene ricordarlo, era stata abrogata in Italia già dal codice Zanardelli nel 1889.

Venne infine creato il Tribunale speciale per la difesa dello Stato: un nuovo organo giurisdizionale che era formato non più da giudici ordinari, bensì da membri delle forze armate e della milizia, con esclusiva competenza sui reati politici, le cui sentenze non erano appellabili: più di cinquemila sarebbero stati i suoi imputati, oltre 27mila gli anni di carcere inflitti, 42 le condanne a morte comminate, ai quali si devono aggiungere oltre 12mila persone inviate al confino.

In questo quadro di stretta autoritaria, l’inasprimento delle pene interessò anche l’espatrio clandestino: un reato di cui vennero accusati gli antifascisti nel processo di Savona, tra i quali figuravano lo stesso Filippo Turati, Alessandro Pertini, Ferruccio Parri, Carlo Rosselli, Lorenzo Dabove, Giuseppe Boyancé, Giacomo Oxilia.

Ma, come è ben noto, al contrario di quel che si aspettava il regime, questi imputati eccellenti vennero condannati a pene lievi o vennero addirittura assolti, grazie all’equilibrato verdetto di un collegio giudicante presieduto da Pasquale Sarno che, con coraggio e la dignità del proprio ruolo, rifiutò di subire i diktat del regime e di farsi complice della sua volontà repressiva.

Ho richiamato questa pagina della storia dell’antifascismo cui fu partecipe il popolo savonese, poiché non è difficile immaginare quanto questa partecipazione abbia in qualche modo influito sul clima processuale e quanto quell’evento abbia influito nel dare speranza ai nuclei antifascisti che operavano nella clandestinità, in Italia o in esilio, in fabbrica come nelle università, al confino come in carcere.

La dura scuola della lotta clandestina continuò così ad alimentare quella coscienza antifascista che seppe resistere, anche nei momenti più difficili in cui il regime appariva trionfare nel mito dell’impero coloniale e godere di un forte consenso di massa.

Ma nonostante tutto ciò e i gravi prezzi pagati negli anni trenta dalle forze antifasciste, queste seppero riorganizzarsi e tenere accesa quella speranza che anni dopo animò quella lotta di liberazione che ebbe tra i suoi più generosi protagonisti i martiri che oggi ricordiamo.

Uomini e donne, civili e militari, di ogni ceto sociale, animati da fedi politiche e ideali diverse, che dopo l’8 Settembre, mentre Casa Savoia e gli alti comandi abbandonavano l’Italia e gli italiani al proprio destino, seppero trovare la forza e la volontà per riunirsi attorno ad un comune anelito di riscatto della dignità di un popolo intero e di una paese che il fascismo e i Savoia avevano portato alla rovina morale e materiale.

Cari amici, gentili ospiti, care compagne e cari compagni, anni fa un illustre intellettuale e opinionista come Ernesto Galli Della Loggia scrisse che in quell’8 Settembre del ’43 si consumò la “morte della Patria”.

Un giudizio tagliente e crudo, quasi inappellabile, che ben sintetizza quello che storicamente fu uno dei momenti, se non il momento più drammatico, della recente storia nazionale.

Nel giro di pochi giorni, infatti, si assistette al disfacimento dello Stato, della sua classe dirigente e delle forze armate, al capovolgimento di alleanze militari che avevano scatenato la guerra, all’occupazione di eserciti stranieri che avevano spaccato letteralmente in due un paese ormai stremato.

L’illusione “che la guerra fosse finita e del tutti a casa”, come recita il titolo di un famosissimo film di Luigi Comencini, dopo poche ore si trasformò in un incubo, poiché non solo la guerra “totale”, che non aveva risparmiato nulla e nessuno non sarebbe finita, ma anzi si faceva ancor più cruenta e sanguinosa e penetrava in ogni aspetto e in ogni istante della vita delle popolazioni civili.

Infatti mentre le armate angloamericane venivano bloccate per mesi sulla linea Gustav, continuavano i bombardamenti delle città, delle industrie, dei porti e della rete logistica. I generi di prima necessità scarseggiavano o erano introvabili mentre fioriva la borsa nera e la miseria.

A tutto ciò veniva ad aggiungersi la crudele e spietata repressione nazifascista, che lasciò dietro di se una tragica scia di sangue, di violenze e devastazioni, alle quali si accompagnò la triste deportazioni di migliaia di esseri umani verso il famigerato sistema concentrazionario dei lager.

Tutto questo, dunque, lascerebbe supporre che il giudizio di Ernesto Galli Della Loggia, così lapidario, sarebbe analiticamente e moralmente giusto.

Ma così non è, anzi io credo sia vero il contrario, poiché proprio in quel drammatico frangente, mentre si assistette al crollo traumatico di un intero sistema statuale e si consumò miseramente il fallimento di un’intera classe dirigente, non si può non richiamare con forza l’altro fatto rilevante e decisivo che segnò quel drammatico passaggio storico. E cioè la scelta compiuta da tanti italiani, come ho detto prima, di non chinare la testa e di combattere per una idea nuova di Patria, la quale, proprio per tale ragione, non poteva che fondarsi su nuovi valori di libertà, di giustizia e di pace.

Ecco perché quel giudizio di Galli Della loggia rischia di essere ingannevole, così come è ingannevole e inaccettabile la tesi, che riemerge strisciante, secondo la quale ai cosiddetti ragazzi di Salò andrebbe riconosciuta se non l’equiparazione ai combattenti delle formazioni partigiane, almeno lo status di soldati italiani che combattevano per tenere fede al patto sottoscritto.

Dico che questo è ingannevole ed inaccettabile sul piano storiografico e, prima ancora, su quello etico, non per negare l’umana pietà che si deve avere per i morti quale che sia la divisa che essi indossavano o per rifiutarsi pregiudizialmente di capire le motivazioni che li mossero, per quanto ignobili potessero essere, ma perché i militari italiani portavano le stellette e non il teschio delle brigate nere o i fasci emblema dei repubblichini.

Perché i soldati italiani, come ha ricordato anche Rago, vennero passati per le armi o deportati in Germania per essersi rifiutati di consegnarsi ai tedeschi e per essersi rifiutati poi di aderire alla Repubblica sociale.

Questo avvenne a Cefalonia, a Corfù, a Rodi, nei Balcani, dove anche il papà del Gen. Patrone qui presente, da soldato aderì alla resistenza collegandosi con quella jugoslava, e ciò avvenne in decine di presidi in Italia: dalla caserma di Cremeno a Genova, a Porta San Paolo a Roma, ai presidi di Alessandria, di Bologna e di tante altre località, grandi e piccole, in cui caddero migliaia di soldati italiani.

Dico tutto ciò perché la R.S.I. fu costituita, come è storicamente accertato, per volontà del Führer, tant’è che i repubblichini di Salò erano di fatto posti sotto il comando del Feldmarsciallo Kesserling e del Gen.Wolff ed erano impiegati essenzialmente nella repressione antipartigiana, che essi condussero con spietata malvagità.

La storia dunque, senza pregiudizi ideologici o rimozioni strumentali, deve aiutarci a capire la complessità delle vicende tragiche che hanno segnato il secolo scorso, coscienti che come ha scritto Claudio Pavone: “la Resistenza italiana fu al tempo stesso, “guerra patriottica, guerra di classe e guerra civile”, dalla quale è nata quel nuovo ideale di Nazione che è a fondamento della Repubblica, laddove il principio di libertà e di eguaglianza è garantito a tutti poiché come disse Arrigo Boldrini, il leggendario comandante “Bulow”: “la lotta di liberazione l’abbiamo fatta per chi c’era, per chi non c’era e anche per chi era contro”.

E per tale motivo, rivolgendosi un giorno a Giorgio Pisanò, dirigente del Movimento sociale, Vittorio Foa, con somma ragione, poté replicare ad una provocazione dell’ex repubblichino, dicendogli: “abbiamo vinto noi e oggi tu sei senatore della Repubblica, se aveste vinto voi, io sarei ancora a marcire nelle vostre galere”.

In queste parole, io credo, vi sia il senso alto e profondo di quella risposta che abbiamo il dovere morale di dare a chi ancora in questi anni ripropone strumentalmente una sorta di “pacificazione nazionale”, come se questa non fosse già avvenuta con la Liberazione e per volontà proprio delle donne e degli uomini della Resistenza e dei Padri Costituenti, che l’hanno sancita nello spirito e nella lettera della nostra Carta fondamentale.

Il settantesimo di questo triste anniversario offre dunque l’opportunità, ancora una volta, per riflettere sul significato e sul valore di una lotta portata avanti da un movimento non riducibile a univoche categorie o ascrivibile soltanto a sparute minoranze.

Una riflessione che dobbiamo saper tenere viva, con animo aperto, lungi da visioni agiografiche e rituali, ma allo stesso tempo sottraendola alle insidie di un mistificante revisionismo, mai sopito, e di una società dell’informazione che si ciba di mode quotidiane e pensieri deboli, coscienti, come ha detto giustamente il Sindaco Federico Berruti, che il passare degli anni e la scomparsa dei protagonisti possono favorire la rimozione o peggio l’oblio di quella pagina fondamentale della nostra storia recente.

In questi ultimi vent’anni, d’altra parte, la storiografia ha iniziato un percorso nella direzione di un ampliamento del concetto stesso di Resistenza, non più coniugabile esclusivamente nel segno della specificità di genere e della lotta militare.

Se è vero che per molte stagioni l’opposizione ai tedeschi e ai fascisti è stata colta sostanzialmente come una vicenda prettamente bellica e “maschile”, in cui marginale appariva il contributo femminile e di altri soggetti della società non direttamente riconducibili alla lotta armata, sempre più, sia da parte degli studiosi che delle associazioni resistenziali, si sta riscoprendo l’apporto e il contributo di sangue offerto da una pluralità di soggetti che scelsero di stare dalla parte della Resistenza.

Alla specificità della lotta partigiana armata, condotta sia sulle montagne sia nelle città, che ne fa uno degli esempi più significativi in campo europeo, la Resistenza annovera anche altre forme di impegno e di adesione che spaziano dalla dolorosa vicenda, già accennata, dei 650.000 militari italiani catturati dai tedeschi e internati nei lager, alla deportazione di oltre 30.000 prigionieri politici. Dalle molteplici e sconosciute attività portate avanti in ogni ambito della lotta di liberazione dalle donne, al ruolo decisivo svolto dalla classe operaia, a cominciare dai grandi scioperi del marzo ’43, che molti storici considerano il vero inizio della Resistenza.

Ad emergere, come si può constatare, è un poliedrico quadro, che viene a modificare in parte un certo canone resistenziale affermatosi nel dopoguerra: non più “la” Resistenza bensì “le” Resistenze, a conferma di quella che Alessandro Natta, in anni lontani, chiamò “l’Altra Resistenza”, a proposito degli internati militari: variazione tutt’altro che riducibile ad un piano puramente grammaticale e nominalistico.

L’eccidio del Priamar può risultare, a questo proposito, come ha già delineato Anna Traverso,emblematico di una lotta che seppe coniugarsi nella sua pluralità di soggetti e di scelte. Chi furono infatti le vittime della violenza fascista? Quali i loro percorsi biografici e le loro estrazioni sociali?

Paola Garelli e Franca Lanzone militavano nei Gruppi di difesa della donna, sorti nel novembre del 1943 con lo scopo di raccogliere fondi e aiuti per i partigiani e le loro famiglie, promuovere la mobilitazione femminile per affermare la loro piena emancipazione, in tempi di ferro e di fuoco, in cui anche in seno al movimento resistenziale vi erano forti riserve e contraddizioni stridenti, dovute ad una cultura impregnata di “maschilismo”, fortemente esaltato dal fascismo e dalla Chiesa, che dipingevano la donna “Angelo del focolare domestico”, avverso quelle idee che in seguito chiameremo “questione femminile”.

Attive nei quattro capoluoghi liguri, le militanti dei Gruppi di difesa della donna recano la testimonianza di un impegno quotidiano, non circoscrivibile a mera funzione di supporto, gravido di pericoli estremi, come attestano le parabole esistenziali delle tante donne seviziate e ammazzate.

Rischi e pericoli che gravavano, ovviamente, sulla testa di chi, come Giuseppe Baldassari, membro della brigata Astengo di GL, e Stefano Peluffo, sappista della brigata Falco, amico del compianto Giuseppe Noberasco e di Francesco Viglecca, i quali avevano maturato da tempo una coscienza politica nel fronte della gioventù e avevano promosso la lotta armata all’indomani dell’occupazione tedesca. Pietro Cassani, carabiniere, non un ex carabineiere, sottolineo, poiché egli scelse di disertare al pari di molti suoi commilitoni per unirsi alle formazioni partigiane proprio per difendere così il suo giuramento di soldato.

Se la vita di Cassani si concluse nel fossato della fortezza savonese, quella di centinaia di altri carabinieri patì, come tanti altri, le tribolazioni disumane nei campi di concentramento gestiti dalle SS, dai quali molti non fecero ritorno.

Anche una anziana casalinga come Luigia Comotto diede il suo contributo alla causa, pur senza imbracciare alcuna arma: il suo reiterato silenzio durante gli interrogatori, la sua ferma volontà di non collaborare con i propri aguzzini gli costò la vita.

Un esempio alto di quella che oggi potremmo definire “Resistenza Civile”, senza la quale anche quella armata non avrebbe avuto quella forza e quell’influenza che ne fece davvero una lotta patriottica e di massa.

Ma a beneficio della nostra coscienza democratica, credo altrettanto importante cogliere questa occasione per riflettere sulle ragioni profonde che produssero i germi velenosi dei totalitarismi nazifascisti, che dilagarono in Europa nella prima metà del secolo scorso. Una riflessione che lungi da sterili luoghi comuni, dobbiamo continuare a riproporci, poiché certi fenomeni come i tarli, corrodono dal di dentro il corpo della società e nulla può esser dato per irripetibile, sebbene, come sappiamo, tutto si evolve in modi e forme nuove, in un processo il più delle volte imprevedibile.

D’altra parte mentre riflettiamo sul centenario della prima guerra mondiale ci rendiamo conto che fino a pochi mesi prima del fatidico attentato di Sarajevo, l’Europa pareva crogiolarsi nella “belle èpoque” e la modernità esaltata dalla mostra universale di Parigi inaugurata nel 1900, sembrava garantire un interminabile futuro di benessere e serenità per tutto il vecchio continente.

Eppure nel giro di poche settimane dall’assassinio dell’Arciduca Francesco Ferdinando D’Austria il 28 Giugno del ’14, il mondo precipitò in una guerra di immani proporzioni che provocò milioni di morti, di feriti, di invalidi e mutilati: e tutto cambiò radicalmente.

 Nulla, infatti, dopo la dura guerra di trincea sarebbe stato come prima: dalla caduta di secolari imperi alla nascita di nuovi stati, dal panorama dei partiti politici ai valori e alle norme sui quali si cementarono le nazioni, dalle dinamiche socio-culturali delle moderne società industriali agli assetti di potere su scala europea e internazionale.

Tutto nel giro di pochi anni sarebbe mutato, investito da un vento impetuoso, carico di tempesta e presago di nuove sventure.

Dalla guerra uscirono rafforzati “revanchismi nazionalisti” sempre più aggressivi, alimentati da teorie che rinfocolarono odi e rancori come quella dannunziana sulla “vittoria mutilata”, prodromo della sciagurata avventura fiumana o quella che nella Germania degli anni 20, ricercò nei “nemici interni” i responsabili della sconfitta.

 Una tesi aberrante su cui fece leva il movimento nazionalsocialista per colpire la debole e incerta Repubblica di Weimar, già duramente provata dalla gravissima crisi economica e dalle insostenibili condizioni imposte dal trattato di pace di Versailles.

In questo quadro più generale, non di meno influenzato dall’esito della rivoluzione dei Soviet, si affacciò sulla scena nazionale ed europea un forte protagonismo delle masse operaie e contadine portatrici di domande e bisogni che le vecchie elitè borghesi vollero stroncare favorendo i movimenti reazionari che distrussero in poco tempo le stesse basi dell’ordinamento liberale: così la società europea e quella italiana subirono una violenta torsione autoritaria.

Così il fascismo prima e il nazismo dopo, nell’arco di un decennio imposero le loro leggi e il loro dominio e quando le democrazie occidentali reagirono fu troppo tardi: l’Europa Patria dell’umanesimo e dell’illuminismo era già entrata nella spirale della più mostruosa catastrofe che l’umanità ricordi.

Ripensare oggi, a settanta anni di distanza, il sacrificio dei sei martiri del Priamar, sollecita dunque tutti noi ad una riflessione di ampio respiro sull’intero trentennio che va dal 1914/15 al 1945, se vogliamo offrire a noi stessi e in primo luogo alle giovani generazioni le giuste chiavi di lettura di quell’insieme di concause che sono all’origine delle tragedie del novecento e se vogliamo comprendere pienamente il senso profondo della Resistenza italiana ed europea, che rappresenta la seconda grande cesura di quello che è stato chiamato “il secolo breve”.

Uno spartiacque che per la prima volta vide la convergenza delle grandi forze laiche e cattoliche che seppero trovare una prospettiva di lotta unitaria e seppero poi coniugare i valori della democrazia liberale con quelli sostanziali della dottrina sociale del cattolicesimo democratico e del movimento di ispirazione socialista.

Qui sta, del resto, la peculiarità dei principi e delle norme che hanno animato i Padri Costituenti e che sono inscritti nella Costituzione repubblicana.

Quella Costituzione che oggi è oggetto di revisione da parte del Parlamento.

A tale riguardo sento il dovere di dire anche qui, che nessuno nega che essa possa e debba essere innovata in alcune parti come quelle relative alle competenze e alla funzionalità della struttura istituzionale, quali ad esempio il superamento del bicameralismo perfetto o il rapporto tra Stato e Regioni.

 Ma tutto deve essere affrontato con grande rigore e saggezza, evitando pericolosi azzardi e salvaguardando in primo luogo il rapporto di coerenza tra principi e ordinamento, poiché quest’ultimo è fondamentale strumento per garantire i primi, ovvero l’insieme di quei diritti e doveri che chiamiamo comunemente “cittadinanza”.

Così come devono essere rigorosamente salvaguardate l’autonomia e l’equilibrio tra i poteri e il sistema di garanzie, che Montesquieu aveva posto a base della sua teoria sugli ordinamenti democratici già tre secoli fa.

Principi che sono l’architrave di ogni democrazia e che ancor più devono esser salvaguardati in un sistema di tipo maggioritario, come è divenuto quello italiano, poiché come avvertiva Alexis de Toqueville, i rischi di “dittatura della maggioranza” sono connaturati alle stesse democrazie moderne. D’altra parte solo così è possibile scongiurare pericolose derive populistiche e plebiscitarie, che in questi anni sono cresciute anche in virtù di una strisciante e corrosiva delegittimazione degli Istituti della democrazia rappresentativa sia nella sfera politica che in quella sociale.

 Anche per questo bisogna mettere in guardia da certe semplificazioni strumentali, secondo cui le rappresentanze politiche e sociali, e cioè partiti, sindacati, organismi o associazioni di categoria, siano un residuo del passato, quasi un impaccio rispetto alla velocità delle dinamiche della società globalizzata e del Web, frutto della rivoluzione informatica.

Anche qui, se nessuno può negare la portata di tali mutamenti, che inevitabilmente si riflettono sullo stesso funzionamento delle Istituzione e dei suoi apparati, e se nessuno può negare l’evidente e preoccupante crisi della rappresentanza politica e sociale che è giunta a livelli di guardia, allo stesso tempo, credo, sia altrettanto innegabile che la forza di una democrazia si fonda anche sulla vitalità di quel tessuto connettivo che si esprime attraverso quell’insieme di corpi intermedi, i quali come prevede la nostra Costituzione, concorrono al raggiungimento di quei diritti di libertà, di giustizia sociale e di uguaglianza sanciti solennemente nella prima parte della nostra Carta fondamentale.

D’altra parte la Costituzione, non è solo un’insieme di norme, una tavola di valori imprescindibili. Essa è, al tempo stesso, un “corpus” vivente, il quale si alimenta costantemente della partecipazione attiva e pluralistica dei cittadini e delle loro rappresentanze politiche, sociali e culturali.

Cari amici, gentili ospiti,avere memoria del nostro passato significa alzare lo sguardo e saper coniugare quelli che Concetto Marchesi, nel dibattito alla Costituente definì i tre presenti: il presente-passato, il presente-presente e il presente-futuro.

Significa avere coscienza che le grandi sfide del nuovo millennio non si possono vincere chiudendosi nelle antiche certezze o nelle piccole patrie.

Occorre saper guardare ad un orizzonte che va ben oltre lo Stato-Nazione, così come lo abbiamo conosciuto nel novecento. Un orizzonte che con straordinaria lungimiranza venne prefigurato nel manifesto di Ventotene scritto al confino da Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni.

A ciò ci richiama oggi lo stesso 25 anniversario della caduta del muto di Berlino, avvenuta il 9 di Novembre dell’89, che chiuse emblematicamente quel lungo periodo del dopoguerra caratterizzato dalla guerra fredda e dalla contrapposizione dei blocchi politico-militari est-ovest.

 Fu quello, infatti, un momento epocale che aprì una fase nuova che portò alla riunificazione della Germania, che liberò grandi energie democratiche e diede un forte impulso al processo di sviluppo e allargamento dell’Unione europea.

Un processo che si scontrò in seguito con vecchie miopie e nuovi egoismi nazionali, che contribuirono a depotenziare il cammino verso una più salda unità politica oltre che economica e monetaria entrata in una crisi assai preoccupante.

E’ quella tensione ideale, propria dell’antifascismo europeo, dei padri fondatori e di uomini come Helmut Kohl e Francois Mitterand, che anche l’Europa di oggi deve saper riscoprire per recuperare fiducia e credibilità tra i popoli europei e sostanziare le ragioni stesse che sono a base del sogno degli Stati Uniti d’Europa, contro vecchi e nuovi fanatismi e integralismi che si sono propagati in tanta parte del nostro continente e del mondo intero.

 Vecchi e nuovi fantasmi verso i quali non possiamo accettare che un velo di indifferenza o peggio di cinica compiacenza possa favorirne il diffondersi, poiché quando il male giunge ad annebbiare le menti, tutto può succedere, e allora potrebbe essere troppo tardi come ci dicono le parole di Bertolt Brecht, che scrisse:

 ” Prima di tutto vennero a prendere gli zingari e fui contento perché rubacchiavano.

Poi vennero a prendere gli ebrei. E stetti zitto, perché mi stavano antipatici.

Poi vennero a prendere gli omosessuali e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi.

Poi vennero a prendere i comunisti, ed io non dissi niente, perché non ero comunista.

Un giorno vennero a prendere me, e non c’era rimasto più nessuno a protestare”.

 Anche per questo, cari amici e cari compagni, hanno lottato migliaia di antifascisti italiani ed europei e gli uomini e le donne della Resistenza che oggi onoriamo.

 Giacomo Ronzitti

Presidente Istituito ligure per lam storia della Resistenza e dell’età contemporanea Sala Rossa del Comune di Savona, 8 novembre 2014

Commemorazione dei patrioti vittime del’Eccidio del Priamar


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