Trucioli

Liguria e Basso Piemonte

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La Valbormida della mia infanzia dove il paesaggio è rimasto integro


Cairo Montenotte – Quell’aia rubata al bosco di frassini e carpini. Sul fianco nord del bric di San Giovanni dei Vigneroli, quasi in cima, vi era un’aia rubata al bosco, alcune viti disposte in filari, un vecchio noce altissimo al bordo del grande campo che il nonno seminava a grano e a biada, quando era ancora in grado di farlo.

 

Il campo e la vigna erano detti genericamente il ronco perché il nonno Pinén aveva ricavato quel terreno coltivabile ripulendolo dagli arbusti e dai rovi usando prima la ronca e poi la zappa.

Aveva spianato una ampio pezzo di terra sottraendolo al bosco di frassini e carpini che crescevano nell’ armonia naturale del bosco ceduo rimasto intatto fin sulla cima del monte.

Sull’altro versante del bric, quello sud che si vede dall’altura di San Giovanni, ai tempi della mia fanciullezza, vi erano radi cespugli di roverella, qualche frassino novello e ginestre che crescevano sulla marna arida, tra cespi di timo selvatico ed erba barca, un’erba frusciante che a strapparla con le mani taglia come un rasoio.

Lo spazio dietro la casa era chiamato “l’era”, semplicemente l’aia, dove si trova ancora un rudere, forse i resti di una cantina o un ricovero per il carro; di fronte c’è la piccola cascina a un piano, quattro vani in tutto, comprata dalla nonna nei primi anni del secolo scorso.

Sul davanti, dalla parte della stalla, ricordo due grandi ciliegi, cresciuti accanto alla vigna sottostante, sul duro bordo erboso, con i tronchi che poggiavano sulla riva del cortile. Quando era stagione erano carichi di grosse ciliegie dure e gustose, mio padre le coglieva appoggiando una scala, ma non voleva che vi salissi perché i grossi rami oltre ad essere in alto erano fragili e si potevano spezzare di colpo.

Di fianco alla casa, sul lato di levante, vi era un pergolato che spingeva i due pali del telaio perpendicolari al muro, si appoggiavano ad esso ma erano sorretti da pali di castagno che terminavano con una biforcazione e così anche all’altra estremità. Una vite molto vecchia e storta si arrampicava al pergolato e distendeva i suoi tralci frondosi da cui pendevano piccoli grappoli rossi. Erano di un’uva dalla buccia dura che maturava tardi. I frutti più gustosi erano nella vigna vecchia dietro alla casa, nel ronco: erano le pesche dalla polpa bianca, tonde e piccole come albicocche, la bucciamolto pelosa, dolcissime. Ne raccoglievo molte di quelle cadute a terra dai rami ma anche sui due o tre alberelli cresciuti storti tra i filari.

Qualcuna la mettevo nel tascapane dello zio Mario assieme ai pochi grappoli d’uva nera e ai piccoli fichi, per farle assaggiare alla nonna Maria e alla zia Elda che non poteva camminare. Per raggiungere quel luogo detto Lavà bisognava attraversare tutta la piana sul carro dello zio, poi passato il ponte Romano, si raggiungeva la strada che saliva verso san Zuan. Quando cominciava la dura salita bisognava scendere dal carro e salire a piedi, sovente sotto il gagliardo sole estivo che ti accompagnava per tutto il ripido tragitto.

Ripercorro la strada in questo autunno valbormidese e cerco con lo sguardo il paesaggio scoperto cinque o sei decenni or sono, ancora integro nel mio pensiero e lo guardo con la meraviglia di trovarlo ancora aderente alla mia immagine conservata da allora. Ogni passo mi è leggero pur nello sforzo della salita è integro nel pensiero che lo accompagna e nella riscoperta dell’antico camminare in un territorio amico ma impegnativo a cui mi dedico con entusiasmo, il mio sguardo percorre la marna azzurra, si tuffa nel precipizio di fianco alla strada, le grosse pietre che incontro sul bordo del percorso, mi sembra di ricordare che sono ancora al loro posto dopo tanti anni, guardo il fianco del monte.

Nulla è cambiato e tutto è nuovo ai miei occhi… Il cavallo impegnava tutti i suoi muscoli per trainare il carro fin sulla cima del monte e raggiungere la meta sull’aia di Lavà

In Lavà tutto era vecchio e ogni cosa costava fatica, per me era un piccolo paradiso e mi era facile cogliere i frutti senza averli coltivati.

Lo zio Mario, che era l’unico contadino della famiglia, piantava le patate, le cipolle e le fave. Falciava a mano tutti i prati di Lavà per riempire il fienile in paese. Il prato più difficile da falciare discendeva quasi a precipizio sul lato destro della casa, giù fino al limitare di un bosco, un centinaio di metri più in basso.

Forse era questo uno degli abissi a cui si riferiva il burattinaio poeta… Quando il fieno era secco lo si faceva scendere con il rastrello e si caricava là in fondo sul carro.

Una volta impilato con il tridente sul carro a due stanghe veniva legato con il cavo disteso come due bretelle e poi si tirava bene con il verricelloincorporato nel carro; lo zio attaccava il cavallo bianco e poi scendeva fino in fondo alla valle di Vadermo. Il ritorno al paese avveniva per quella via da carri parallela al ruscello che si butta in Bormida; anche questa strada arriva al ponte Romano e prosegue attraverso la Piana.

Bruno Chiarlone Debenedetti


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B. Chiarlone

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