Trucioli

Liguria e Basso Piemonte

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Annus Horribilis. Non solo Imu: proposte di politica economica e industriale


L’anno 2012 appena terminato ha sicuramente meritato la definizione di “Annus Horribilis”: probabilmente si è trattato, dal punto di vista economico, sociale, politico, dell’anno peggiore dalla fine della seconda guerra mondiale.

In tempi passati abbiamo sicuramente attraversato fasi molto travagliate, penso in particolare a quelle contrassegnate dal processo di ricostruzione post-bellica, ma la differenza, in quel tempo, era rappresentato dal fatto che, a fronte, di una povertà assoluta gli indicatori erano comunque in crescita e, la politica, grazie alla presenza dei grandi partiti di massa, forniva comunque l’idea (molto di più di un’idea, in verità) d capacità di guida autorevole e onesta.

Adesso come adesso le cose stanno, invece, assai diversamente.

Prendo spunto, per avviare questa riflessione, dalla parte conclusiva dell’articolo di Eugenio Scalfari, apparso Domenica 30 Dicembre, sulle colonne di “Repubblica”, laddove lo storico fondatore del quotidiano di Piazza Indipendenza, contesta le tesi apparse qualche giorno prima sul “Corriere della Sera” a opere degli ultraliberisti Giavazzi e Alesina, sul “restringimento delle sfere di competenza dello Stato”, insomma le vecchie ricette “meno stato più mercato”, attraverso la concezione dello”stato minimo”.

Scalfari ha un guizzo da vecchio liberalsocialista (non lo ricorda mai, ma fu deputato dello PSU tra il 1968 e il 1972, poi restò fuori dal Parlamento per via di una clamorosa lite con Craxi sulla composizione delle liste a Milano) e afferma che, al modo di Giavazzi e Alesina, si rimetterebbe indietro l’orologio della storia, risalendo il tempo fino all’epoca “manchesteriana” dell’800: quella mirabilmente descritta da Federico Engels.

Purtroppo le cose non stanno come le analizza Eugenio Scalfari: l’orologio della storia è già stato messo all’indietro, da tempo e in particolare in questo 2012.

Tutti gli indicatori economico-sociali si sono collocati all’indietro, senza speranza alcuna di ripresa: mi riferisco ai dati veri, quelli dell’impoverimento generale, della disoccupazione non solo giovanile (ormai arrivata a livelli non sopportabili) alla capacità d’acquisto dei singoli e delle famiglie.

Un quadro d’impoverimento e di paura in un Paese governato male, dove servizi e infrastrutture dalla sanità alle ferrovie sono ormai ridotti a livelli di assoluta mediocrità e sottoposto ancora a tagli finanziari e ad aumenti di tariffe per gli utenti più deboli

Un Paese, collocato all’interno di un’Europa il cui tratto più caratteristico è sicuramente quello del “deficit di democrazia”, affidato a uno stuolo di presunti “tecnici”,collocati in realtà proprio sul terreno più delicato dell’economia e dello stato sociale  sulla frontiera ideologica di un liberismo cha applica le sue ricette senza tener conto delle persone, della loro vita, delle loro esigenze primarie: tanto per citare un episodio emblematico, tanti anni fa, un gruppo di giovani ricercatori universitari, Monti, Fornero, Deaglio, Tremonti, Ricossa scrissero un manuale di economia politica, giudicato ottimo dallo stesso Federico Caffè. Aggiunse però il più illustre epigono di Keynes in Italia “peccato che in questo manale non siano previste le persone in carne ed ossa”.

Il governo dei “tecnici“ e la modifica di ruolo, forzatamente imposta, dal Presidente della Repubblica alle funzioni previste dalla Costituzione, hanno rappresentato l’altro aspetto fortemente negativo che ha contraddistinto il 2012.

Si è completato il disegno di una “Costituzione materiale” di stampo presidenzialista posta al di sopra della “Costituzione formale” basata sulla Repubblica Parlamentare: si è così completato il disegno portato avanti dal precedente governo populista, personalista, di estrema destra con pulsioni razziste.

Si è governato esclusivamente attraverso i decreti legge, espropriando un Parlamento che in verità meritava di essere espropriato, non si è modifica la legge elettorale che, qualcuno proprio oggi, ha definito “incivile”: eppure a Febbraio andremo per la terza volta consecutiva nel giro di sette anni a votare con questo tipo di sistema che impedisce la scelta alle elettrici e agli elettori, fornisce un esagerato premio di maggioranza alla Camera determinando, altresì, condizioni di probabile instabilità nell’altro ramo del Parlamento che, tra l’altro, non si è riusciti a modificare nelle sue funzioni fondamentali.Rimane così l’Italia un caso particolare di “bicameralismo ridondante”.

Insomma: una valutazione complessiva ci indica, senza tema di smentite, che anche sul piano dell’esercizio democratico abbiamo fatto dei passi indietro.

Infine, la sinistra: il bilancio è sconsolante, sconsolante davvero.

Si sono verificati due fenomeni di annessione, alla vigilia di una difficile tornata elettorale.

Il primo riguarda quell’area che aveva ritenuto doversi collocare all’interno del recinto del centrosinistra, percorrendo la strada delle elezioni primarie per la candidatura a “capo della coalizione”: una linea rivelatasi del tutto fallimentare dal punto di vista della capacità d’attrazione in termini di suffragi, che alla fine si è risolta nell’assunzione di un ruolo secondario di supporto per un PD alle prese, in maniera sorprendente (ma non capisco proprio dove stia la sorpresa) con la fortissima contraddizione di dover condurre una campagna elettorale “contro” un governo sostenuto a spada tratta nonostante i provvedimenti anti-popolari assunti, e i cui componenti adesso si candidano sul fronte delle riforme e dell’Europa come avversari. Una situazione che non era stata prevista dai dirigenti del PD che non appaiono, neppure adesso, pienamente consapevoli dello stato di cose in atto.

L’altra “sinistra” (uso questa definizione per comodità, pur non avendo mai accettato, in nessun tempo, l’usata teoria delle “due sinistre”) ha finito, invece, dopo aver oscillato a lungo tra diverse anime del movimentismo, con il farsi arruolare da quello che il Corriere della Sera, con qualche ragione, ha definito “partito giudiziario” ch a questo elemento aggiunge quello di un ritorno all’esasperata personalizzazione della politica, oltre ad una sorta di monotematicità programmatica e di tendenza all’esclusione di determinati elementi dal punto di vista sociale e politico.

Seguiremo nei prossimi giorni lo sviluppo di questa vicenda nel corso della quale si rischia, nuovamente, la marginalizzazione parlamentare della sinistra d’alternativa.

Mi sia concessa una battuta circa l’apparente “vexata questio” della presenza dei segretari di partito in questa lista, definita della “Rivoluzione civile”: la presenza dei segretari non dovrebbe essere valutata al riguardo della loro appartenenza o meno al “ceto politico”, ma in  base ai risultati ottenuti nel corso della loro presenza ai vertici dei partiti.

Sotto quest’aspetto non dovrebbero esserci dubbi: i disastri combinati, dalla presenza assolutamente disastrosa al governo, dal fallimento totale della “Sinistra Arcobaleno”, alle scissioni e riscissioni reiterate e sviluppate in quest’area il bilancio parla da solo e pare proprio strano che i militanti si acconcino senza riflettere a questo negativo stato di cose, senza riuscire a proporre un cambiamento.

Allora: 2012 “Annus Horribilis”? Assolutamente sì e mi fermo con questo tipo di valutazione, senza proclami di speranza. La speranza è una virtù teologale e non una categoria politica e di conseguenza non deve esser usata sviluppando questo tipo di analisi che implicano invece, capacità di lettura adeguata, di proposta politica, di aggregazione sociale: tutta merce che mi pare proprio difficile da reperire in circolazione.

Franco Astengo

NON SOLO IMU: PROPOSTE DI POLITICA ECONOMICA E INDUSTRIALE
L’avvio della campagna elettorale si colloca in una fase di ulteriore inasprimento della crisi finanziaria ed economica globale che, in Europa, sta assumendo connotati davvero drammatici, in termini d’impoverimento generale, crescita della disoccupazione in tutte le fasce d’età, di smarrimento d’interi settori produttivi che si verificano non semplicemente per effetto dei meccanismi della delocalizzazione.

Siamo di fronte ad una situazione di crisi strutturale di un intero modello di sviluppo, acuita dalle scelte compiute in sede di costruzione dell’Unione Europea, in particolare attraverso le rigidità monetariste presenti nel testo del trattato di Maastricht e non compensate e corrette nel quadro di un avanzamento di una “Europa Politica” in grado di colmare, gradualmente, il “deficit democratico” via via accumulato e che, oggi, presenta il conto nei termini appena indicati.

L’Italia soffre in particolare di questo stato di cose per un motivo molto preciso, non derivante semplicemente dall’accumulo del debito pubblico e dalla scarsa credibilità a livello internazionale: questi due elementi hanno portato, negli ultimi tempi, all’esasperazione di politiche neo-liberiste, molto aggressive sul piano ideologico, che hanno fornito un esito del tutto disastroso come dimostrano tutti gli indicatori economici in nostro possesso, sia in riferimento ai temi di dinamiche economiche interne, sia in riferimento agli elementi fondamentali di vincolo esterno.
In questo quadro, dal punto di vista politico, appare almeno sconcertante, se non peggio, l’atteggiamento del PD, che dopo aver approvato tutti i provvedimenti assunti dal governo dei cosiddetti “tecnici” e rivolti esaustivamente nella sola direzione di colpire i redditi medi e medio-bassi, oltre all’inasprimento delle condizioni di precarietà del lavoro e della recessione di diritti fondamentali proprio in materia di relazioni industriali e di rapporto di lavoro, sta cercando, in vista di una possibile assunzione di un ruolo di governo, di mettere assieme Confindustria, Sindacato (diviso come sappiamo) categorie professionali, in una logica – prima di tutto è bene ricordarlo – di spettacolarizzazione delle candidature e, in secondo luogo, accettato appunto il quadro liberista in una visione che, secondo un minimo di plausibile logica interpretativa, che potrebbe anche assomigliare (mutatis, mutandis) a un meccanismo di tipo corporativo tenuto assieme proprio dalla logica dei parametri monetaristi imposti dalla Banca Centrale Europea e da meccanismi quali quelli del “fiscal compact” e dell’introduzione nell’articolo 81 della Costituzione del vincolo al pareggio di bilancio.
Si arena qui definitivamente quell’idea di una presenza, almeno, di tipo “socialdemocratico” che sarebbe presente nello stesso PD con l’intento di attenuare l’impatto liberista, ricercando gli opportuni collegamenti europei per tentare così una strada diversa di fuoriuscita dalla crisi.
Quanti, a sinistra, hanno pensato (e stanno pensando, anche all’interno di schieramenti che si proclamano per l’opposizione) che la strada di una progressiva, moderata, “socialdemocratizzazione” del PD potesse verificarsi, almeno nel medio periodo, non si trovano così di fronte a spazi plausibilmente usufruibili nella direzione di poter influire all’interno di una dinamica sufficientemente positiva.
Occorre predisporsi, invece, a una fase di opposizione netta e senza sconti, probabilmente ancora al di fuori del Parlamento (e si tratterà di una carenza molto grave), ma cercando di mobilitare il massimo di soggetti, fuori e dentro il mondo del lavoro, offrendo loro non semplicemente una possibilità di lotta, ma anche di prospettiva alternativa sul piano politico.
In questo senso, molto schematicamente, credo debbano essere individuate della priorità di contenuto.
Sul piano europeo ritengo di aver già espresso quelli che dovrebbero rappresentare i punti salienti di un’iniziativa, sul terreno della democratizzazione politica e della lotta al monetarismo e alle politiche recessive esemplificate nel fiscal compact.
Sul piano interno appaiono, invece, centrali e assolutamente prioritarie le drammatiche vicende legate al progressivo processo di ulteriore de-industrializzazione in atto nel nostro Paese che chiamano a una riflessione attorno alla possibilità di avanzamento di una proposta di politica economica tale da rappresentare un’alternativa, aggregare soggetti, fornire respiro a un’iniziativa “di periodo”.
Il concetto di fondo che è necessario portare avanti e rilanciare è quello della programmazione economica, combattendo a fondo l’idea che si tratti di uno strumento superato, buono soltanto – al massimo – a coordinare sfere private fondamentalmente irriducibili.
Una programmazione economica condotta con riferimento all’irrinunciabile valenza europea e avente al centro l’idea dell’iniziativa pubblica in economia attorno ad alcuni fondamentali campi d’intervento:
1) Il territorio. Serve un piano straordinario per il ripristino dell’assetto idro-geologico del territorio che va franando dappertutto, dal Nord al Sud, sulle coste e nell’entroterra. Eguale urgenza ha, ovviamente, il tema della difesa dell’ambiente nel suo complesso, dello smaltimento dei rifiuti, della cementificazione;
2) Le infrastrutture. La situazione delle ferrovie italiane è semplicemente disastrosa, così come quello delle strade e autostrade, in particolare al Sud;
3) Il nodo energetico, non risolvibile, ovviamente, con un ritorno al nucleare;
4) Il finanziamento della ricerca destinata soprattutto verso l’innovazione di processo nell’industria;
5) Il rilancio del settore industriale. La Fiat può esercitare il suo ricatto perché questo Paese è privo, da anni, di politica industriale. Siamo, per varie ragioni, pressoché privi di siderurgia, chimica, agroalimentare, elettromeccanica, elettronica. In questa situazione ormai sono asfittici e sottoposti al processo di delocalizzazione anche quei settori “di nicchia” sui quali si era basato lo sviluppo anni’80- anni’90;
6) Il rientro della programmazione pubblica nel settore bancario, con l’obiettivo principale del credito nella media e piccola industria;
7) Il rientro dal precariato e l’inserimento stabile della manodopera extracomunitaria;
8) Il recupero della gigantesca evasione fiscale
9) La messa all’ordine del giorno di forti investimenti sul terreno del rapporto tra pezzi fondamentali della struttura industriale esistente e la difesa dell’ambiente. Un tema emblematizzato non soltanto dalla vicenda dell’ILVA Taranto che, comunque, ha messo in luce anche altri limiti di fondo posti sul piano delle dinamiche nel processo produttivo in settori fondamentali.
Accanto a questi punti del tutto irrinunciabili ci sono da valutare anche gli elementi di spreco che vengono principalmente da due parti: il gigantismo dell’apparato politico portato soprattutto dalla personalizzazione della politica (pensiamo alla dimensione gigantesca del debito delle Regioni, elefantizzatosi dal momento dell’elezione diretta dei Presidenti), e il processo di spreco e di diseguaglianze già causato dal cosiddetto “federalismo” così come questo, in maniera del tutto raffazzonato e legato a egoismi di parte è stato concepito, e il tema della riconversione ecologica di parte dell’apparato produttivo e delle prospettive di uso del territorio che pure vanno considerate con grande attenzione.
Lasciamo anche da parte, per motivi di economia del discorso, i temi dell’intreccio inedito che si sta realizzando, ormai da qualche anno, tra struttura e sovrastruttura, in particolare nell’informazione: si tratta comunque di un tema assolutamente decisivo nella lotta sociale e politica di oggi.
Come può essere possibile avviare un programma di questo tipo nelle condizioni di crisi globale dentro cui, oggettivamente, ci stiamo trovando?
Se esiste ancora, anche in forma surrettizia dal punto di vista della presenza politica ed elettorale, una sinistra che intenda portare avanti, assieme, un programma di opposizione e di alternativa, senza cadere nella trappola dell’omologazione ai modelli dell’avversario e senza legarsi a settori politici dai quali possono venire soltanto elementi di ulteriore sopraffazione per il movimento operaio, si ha il dovere di pensare, appunto, nei termini dell’opposizione per l’alternativa, lavorando prima di tutto sul tema della propria autonomia politica, programmatica, organizzativa.
Franco Astengo

 LO SCENARIO DI PARTENZA

La gran parte degli analisti politici si sofferma, in questi giorni, sulle prospettive dei diversi schieramenti che stanno attrezzandosi in vista, prima della scadenza della presentazione delle liste (20-21 Gennaio) e successivamente della campagna elettorale che avrà come traguardo l’esito del 24-25 Febbraio: utilizzando molte delle osservazioni fin qui espresse ho provato, allora, a disegnare uno “scenario di partenza” riferito esclusivamente, sia chiaro, alle dinamiche politico – elettorali e non rivolto all’insieme di esigenze di contenuto programmatico che, pure, all’interno della gravissima crisi che stiamo vivendo dovrebbero essere analizzati con grande attenzione, anche per verificare le contraddizioni evidenti, sotto quest’aspetto, in ciascun schieramento (da qualche parte ci si sta comunque attrezzando per un monitoraggio costante al riguardo dell’analisi tra le politiche svolte da ciascun partito fino a questo punto, i programmi elettorali e lo sviluppo del dibattito).

La prima considerazione di merito che mi pare opportuno sviluppare riguarda la mancata modifica del sistema elettorale: il mantenimento in vita del sistema elettorale proporzionale con soglia di sbarramento e premio di maggioranza escogitato nel 2005 con l’obiettivo di rendere meno netto la probabile sconfitta del centrodestra di allora potrebbe provocare un esito paradossale, quello di non corrispondere alla finalità di fondo che il sistema elettorale stesso presenta – il mantenimento di uno schema bipolare (che nel 2008 entrambi i principali contendenti tentarono di ridurre, addirittura, a bipartitico, cedendo poi a un inefficace metodo di alleanze “ridotte” , il PDL con la Lega, il PD con l’IDV che risultò, alla fine, determinante per l’esito in quanto la Lega Nord contribuì in maniera decisiva ad allargare il divario tra i due schieramenti) trovandosi di fronte proprio a un quadro che segnerà, comunque, la fine proprio di quello schema, presentandosi infatti un nuovo quadro di tipo multipartitico.

E’ facilmente prevedibile, infatti, la presenza nel futuro Parlamento di almeno quattro poli: il centrodestra “classico” (se sarà raggiunto, come probabile, l’accordo tra PDL e Lega) , l’alleanza PD-SeL (che i sondaggi danno in grado di acquisire la maggioranza assoluta dei seggi alla Camera con una quota di voti stimata oggi da Renato Mannheimer attorno al 38%-39%, quindi usufruendo di un’aggiunta di premio di oltre il 15%), il “Nuovo Centro” oggi quotato attorno al 15%, del quale comunque il Presidente del Consiglio uscente dovrebbe sortire come azionista di maggioranza, e il Movimento 5 Stelle che, analisi un po’ facilone danno in picchiata rispetto a sondaggi altrettanto grossolani – a mio giudizio – usciti qualche tempo fa e che comunque si colloca ben oltre il 10% dei voti.

Potrebbe aggiungersi, in questo quadro, anche “Rivoluzione Civile” che in questo momento si colloca secondo stime attendibili attorno al 3%, essendo difficile valutare quanto possa provenire a questa lista dal voto già “consolidato” di formazioni storiche come il PRC e l’IDV: se dovesse provenire, da quei soggetti, una quota consistente del precedente patrimonio di suffragi in loro dotazione, pur in calo negli ultimi tempi. In questo caso allora il conseguimento del quorum al 4% alla Camera potrebbe risultare accessibile.

Una contraddizione stridente, quella tra gli effetti di questa strampalata legge elettorale e il quadro politico reale, in quanto può essere prevedibile che, in questa occasione alla Camera dei Deputati il premio sia davvero “di minoranza” e che un quadro di forze politiche complesso e articolato come quello che potrebbe essere presente in aula resti compresso, dal punto di vista della rappresentanza, nella spartizione de soli 290 seggi di minoranza. Si può senz’altro affermare, al di fuori da qualsiasi visione ideologica, che ci troviamo di fronte ad un’esagerata affermazione del concetto di “governabilità”, da correggere al più presto. In ogni caso ci troveremo con un sistema parlamentare sicuramente “in sofferenza” e riprenderanno gli spostamenti , più o meno “tattici”, all’interno dell’aula per costruire equilibri diversi.

Si tratterà di un fatto fisiologico, dipendente soltanto in parte da ciò che accadrà al Senato : il possibile esito delle elezioni nel secondo ramo del Parlamento costituisce, infatti, l’altro elemento di vero e proprio paradosso in questa vigilia elettorale.

Un sistema elettorale, infatti, che prevede un uso così anomalo del premio di maggioranza (in realtà di minoranza) in un ramo del Parlamento è congegnato in modo di far sì che nell’altro ramo (in un regime, ricordiamolo, a bicameralismo “ridondante”) possa realizzarsi una maggioranza diversa, senza che – come negli USA – ci sia il presidenzialismo e il rinnovo parziale delle Camere a metà mandato in nome di un “power of balance” che da noi non esiste.

L’elezione del Senato della Repubblica si colloca, quindi, al centro dell’attenzione di tutti gli osservatori in una dimensione molto curiosa: quella del cercare di prevedere il risultato delle minoranze, regione per regione, per capire se ci sarà, in particolare in quelle regioni ritenute decisive (Lombardia, Veneto, Sicilia) una spartizione dei seggi dalla parte – appunto- risultata minoritaria, tra due o più soggetti.

Paradossalmente, ha già notato qualcuno, Berlusconi, vincendo in Lombardia, potrebbe favorire – alla fine – il disegno di Monti che, partecipando in quella Regione alla divisione dei seggi assieme al M5Stelle potrebbe fare in modo che il PD risulti, alla fine, costretto a cercare un’alleanza fuori dal quadro presentato agli elettori.

Nella sostanza il quadro di partenza presenta due elementi di oggettiva difficoltà, dal punto della rappresentatività del futuro Parlamento e della capacità di espressione di maggioranze definite e consolidate : alla Camera un quadro non corrispondente ai reali rapporti di forza presenti nel Paese nel senso del superamento del quadro bipolare; al Senato l’impossibilità di espressione di una maggioranza coerente con l’altro ramo del Parlamento e di conseguenza la formazione di un Governo di composizione “anomala” rispetto a quella indicata agli elettori.

Senza considerare, ancora, il peso che, sulla legittimità delle istituzioni rappresentative, avrà l’astensionismo: giustamente è stato fatto osservare, in queste ore, come la previsione di diserzione dal voto stia riducendosi via, via, che si chiariscono al meglio gli schieramenti e le candidature. Purtuttavia è ragionevole pensare che, nelle condizioni date di forte crisi economica, d’insufficienza nella capacità dei soggetti politici di esprimere radicamento sociale, di una legge elettorale che – ancora una volta – non consentirà alle elettrici e agli elettori di scegliere tra i candidati (verificheremo, tra l’altro, quale sarà l’impatto sui partiti che hanno svolto le cosiddette “primarie”, PD e SeL, nel caso di manipolazione delle liste rispetto ai risultati emersi dalle primarie stesse), la quota di astensione dovrebbe superare largamente il 30%, rappresentando il record nella storia delle consultazioni a livello legislativo generale, nella storia della Repubblica.

Quale potrebbe essere l’esito di questa possibile non rispondenza tra la volontà dell’elettorato e il verdetto sanzionato dalle procedure previste dal sistema elettorale?: è prevedibile una ripresa di forte fibrillazione tra i diversi soggetti politici, alle prese tra l’altro con la difficilissima situazione economico- sociale.

Potrebbe trattarsi, insomma, di un’altra legislatura più o meno “breve”.

E la cosiddetta “sinistra d’alternativa” ? Mi pare, in estrema sintesi, che abbia rinunciato a giocare le carte di un’identità che pure poteva essere espressa all’altezza delle contraddizioni dell’oggi, confluendo in una conformazione diversa nell’idea dell’agire politico (fortemente condizionato dal personalismo), nella qualità delle opzioni programmatiche, nella possibilità di espressione di un personale rinnovato e collegato davvero alle lotte reali che, nel Paese, si stanno conducendo.

Si tratta di una prima impressione, ma ben radicata e credo difficilmente smentibile dai fatti così come questi si stanno verificando nell’attualità.

Franco Astengo

LE RAGIONI DELL’ASTENSIONISMO (DIMENTICATO?)

I risultati delle elezioni amministrative di primavera, in particolare l’esito delle elezioni regionali siciliane, avevano mostrato il fenomeno dell’astensionismo quale vero e proprio “convitato di pietra” all’interno del sistema politico italiano, in grado di fare davvero la differenza tra i diversi schieramenti.

Oggi, nel clangore sollevato dai mezzi di comunicazione di massa (ed anche dal web) circa le vicende preparatorie alla prossima fase elettorale che si concluderà il 24 Febbraio, pare ci si sia sostanzialmente dimenticati del fenomeno che i sondaggisti, unanimi, stanno valutando come in calo, così come in calo appaiono i rappresentati della protesta anti-politica che pure anch’essi, nei mesi scorsi, parevano in decisa risalita nel favore dell’opinione pubblica.

Abbiamo avuto due mesi interamente occupati dalle primarie del PD, con un esito di tre milioni circa di partecipanti, in calo rispetto ad analoghe occasioni e senza ricordare che nelle liste elettorali sono iscritti circa 50 milioni di elettrici ed elettori (quanto alle primarie il fenomeno appare già in calo, probabilmente i numeri della tornata in corso in queste ore per la “scelta”, si fa per dire, dei candidati al Parlamento risulterà alla fine assai ridimensionata rispetto ai numeri); poi si è trattato di “scendere di nuovo in campo”, oppure di “salire in politica”, quindi – proprio nell’attualità – un ritorno prepotente del fenomeno della personalizzazione della politica, accompagnato dal protagonismo soggettivo di magistrati che scelgono, come già in passato, la via del Parlamento per combattere fenomeni criminogeni e mafiosi.

Quanto alle “primarie” verificheremo in seguito quanto il loro esito corrisponderà all’effettiva formazione delle liste: un elemento che risulterà particolarmente interessante in SeL.

Insomma: la scena sembra proprio presa dalla politica “politicienne”, autoreferenziale all’interno del suo bicchier d’acqua scambiato per il Mar dei Sargassi e si tende a far dimenticare le ragioni vere della profonda disaffezione che continua a pervadere (e non ci sarebbero motivi perché fosse diversamente) larga parte del corpo sociale.

Provo a ricordarne alcuni di questi motivi, partendo da un presupposto fondamentale: da alcuni anni gli analisti politici non solo considerano legittima la scelta astensionista quale elemento di effettiva scelta politica (e non di semplice neghittosità soggettiva, anche se l’astensionismo “politico” è sempre stato ridotto di dimensioni ma presente: dagli anarchici, ai bordighisti, a Lotta Comunista) spostandone l’obiettivo dal “lasciar fare, tutto va ben madama la marchesa” (come si pensava fino a qualche anno fa, in particolare nel caso statunitense) all’espressione di una dimostrazione di motivata protesta (un po’ come nel caso del “voto contro tutti” di derivazione prima sovietica, e adesso russa).

Verifichiamo, allora, le più importanti ragioni che possono spingere l’elettorato italiano, in questo momento, verso un astensionismo che, rispetto ai precedenti riguardanti le elezioni politiche, si preannuncia comunque da record: ricordo che, in Italia, all’epoca del proporzionale contraddistinto dagli 8 partiti “classici”, la partecipazione al voto, tra il 1948 e il 1987 aveva sempre superato il 90% e che il calo, assai netto, verificatosi fin dall’avvio del sistema maggioritario era stato giudicato, un po’ incautamente, come un semplice “riallineamento” verso le medie europee, quindi quasi come un segno di modernizzazione dell’elettorato non più costretto nella gabbia dell’obbligo verso i grandi partiti di massa, che nel frattempo implodevano lasciando spazio ai partiti acchiappatutti, azienda, personali, ecc,ecc.

Dunque procedo per ordine:

1)      L’effetto pesante della crisi economica, della crescita della disoccupazione, di condizioni di vita in costante peggioramento. Sarà difficile convincere i minatori del Sulcis della bontà di questa o di quella ricetta, oppure i giovani che al 33% sono disoccupati, o i pensionati che si trovano, al 50% della categoria al di sotto dei 750 euro mensili. Ma altre questioni, dalla qualità dei servizi, a quella delle infrastrutture, alla difesa ambientale, non appaiono certamente come temi forieri di una campagna elettorale favorevole alle diverse forze politiche, salvo affrontarli con il piglio populista, da un lato di tipo imbonitorio e dall’altro di tipo per così dire “distruttivo”;

2)      In quest’ultimo scorcio di tempo è emerso il fenomeno dei privilegi del “ceto politico “ (mi scuso del tono giornalistico, ma non ho reperito migliore definizione, se non quella, un po’ sarcastica di Giannini degli “ottimati”) con relativi scandali. Ricordando che nulla è stato fatto su questo terreno, se non provvedimenti davvero “foglia di fico” come quello dell’incandidabilità (sul quale andrebbe aperto un lungo discorso) vale la pena citare soltanto il “caso Lusi” quale emblema di una situazione davvero imbarazzante (ce ne sarebbero tantissimi altri, “er Batman”, la famiglia Bossi e affini, ecc, quasi tutto il Consiglio Regionale della Lombardia). Soprattutto sono le cifre che corrono, assolutamente offensive per tutti i cittadini e non soltanto per quelli che ho citato al punto 1. Questo eccesso di privilegi determina anche il fenomeno di queste ore, della resistenza a lasciare il seggio dopo decenni di Parlamento, l’affollamento all’iscrizione nella lista dei possibili candidati, ecc,ecc.;

3)      La mancata modifica del sistema elettorale. Credo non ci si ancora piena consapevolezza, tra le elettrici e gli elettori, che si torna per la terza volta alle urne nel giro di sette anni senza che esista alcuna possibilità di scelta rispetto alle candidate e ai candidati presenti in lista. Ritengo si tratterà di un fattore del tutto dirompente, in questo tipo di situazione.

In sostanza: in questo momento che il fenomeno dell’astensionismo pareva nascosto come la polvere sotto il tappeto dalla funzione corifea svolta dai mezzi di comunicazione di massa, il fenomeno dell’astensionismo appare ancora non semplicemente presente all’interno delle dinamiche politiche del nostro Paese, ma anche in grado di determinarne l’indirizzo, ricordando in ultimo che i passaggi di fronte sono sempre stati, in Italia, molto limitati numericamente al momento del voto.

Savona, 30 dicembre 2012 Franco Astengo

 LA SESTA DEMOCRAZIA

Nell’articolo di fondo apparso sabato 28 Dicembre sulle colonne del “Corriere della Sera”, Michele Ainis fa coincidere il profilo dei cinque “leader” in corsa per le prossime elezioni politiche ad altrettanti modelli di democrazia.

A parte la necessaria critica di fondo al concetto di personalizzazione che dovrà rimanere tenace e insuperabile in qualsiasi frangente ed evenienza, anche quella apparentemente più opportuna sul terreno elettorale, provo a riassumere le cinque definizioni.

Al riguardo di Bersani si usa la categoria della “democrazia innervata dai partiti, che in qualche modo fa coincidere i partiti con le stesse istituzioni”. Si tratta della definizione maggiormente opinabile perché mi pare non tenga conto della mutazione genetica che il PD ha subito attraverso l’adozione del meccanismo delle primarie con conseguente processo d’individualizzazione (è stato definito, su questo stesso blog con intuizione particolarmente felice “partito frattale”) e appare ancora assente un’analisi approfondita a questo proposito che, probabilmente, farebbe spostare l’asse del ragionamento di Ainis.

Per Berlusconi è stato più facile in quanto, nell’articolo, è stato applicato il meccanismo del potere carismatico, interpretato in senso weberiano.

Quanto a Monti si scrive di “legittimazione attraverso le competenze, significando di fatto che il rifiuto della politica come professione porta ciascun cittadino ad ambire al governo della polis” (anche qui ci sarebbe da discutere molto, in questa definizione solo apparentemente di stampo kennnediano).

Per Beppe Grillo è, naturalmente, riservata la parte relativa alla politica realizzata attraverso il web e si scrive come resti da vedere il conciliarsi tra “la vena anarchica del web con la vena autoritaria del suo apostolo”.

Infine Ingroia, accostato immediatamente a Di Pietro e De Magistris, e visto come il vessillifero del “governo dei custodi”. Un partito appellato come “non giustizialista ma giudiziario”.

Si parla nella premessa anche di “elisione a vicenda”, ma anche questo è un punto da analizzare a fondo, perché se c’è un punto che accomuna questo cinque visioni all’interno del sistema politico italiano appare essere quello, in diverse gradazioni ovviamente, dell’accettazione dei meccanismi economico – sociali che hanno presieduto alla crisi e a come questa è stata affrontata dalle classi dominanti, in termini di rinnovata concezione di classe: e sarà difficile per il PD far dimenticare, in campagna elettorale, l’appoggio incondizionato fornito al governo dei tecnici, assoluto “esecutore” di questa teoria.

Il punto che intendevo sollevare si rivolge però in un’altra direzione: in questa campagna elettorale mancherà, infatti, la “Sesta Democrazia”.

Una “Sesta Democrazia” non semplicemente interprete e, soprattutto, rappresentativa dei bisogni e delle istanze delle grandi masse popolari, ridotte a massa di ex-consumatori impauriti, sia di merci, sia di eventi.

Mancherà quell’idea della democrazia che è stata in grande parte artefice della Costituzione Repubblicana, che non ha caso è stata messa in questi mesi in fortissima discussione attraverso la surrettizia introduzione di una sorta di “costituzione materiale” fondata sul presidenzialismo, e della sua forma politica più alta quella rappresentata dalla democrazia parlamentare, con il Parlamento – appunto – al centro, considerato “lo specchio del Paese”.

Non ci sarà, dentro alla prossima campagna elettorale, quell’idea di democrazia emanazione e rappresentanza del movimento dei lavoratori, capace di spingere per forme più avanzate, sia al proprio interno nell’idea del partito di massa agito in funzione di un’idea “consiliare” che dai luoghi di lavoro emanasse e promanasse l’idea di fondo della militanza politica quale momento essenziale della vita di ciascheduna e ciascheduno (pensiamo all’antica SPD) e nella società esercitasse, nelle forme democratiche della dialettica, del confronto, del pieno rispetto delle istituzioni, una funzione egemonica.

Sarà assente, insomma, nella prossima campagna elettorale (ma non sarà la prima volta) l’idea della “egemonia politica” che Gramsci aveva trasmesso alle forze rappresentative delle classi subalterne: “ non solo forza mista a consenso, ma capacità di individuare le forme che devono regolare i comportamenti delle diverse soggettività politiche a partire dalla comprensione della loro funzione produttiva, nonché delle loro caratteristiche morali e capacità progettuali” (A. Gramsci, “Quaderni dal Carcere”, Torino 1975).

Per quel che mi riguarda, insomma, il voto va subito a questa “Sesta Democrazia”, intesa quale forma superiore della capacità d’espressione delle forze più sane e conseguenti presenti nel Paese.

Savona, 29 dicembre 2012 Franco Astengo

 

AGENDA MONTI, CONTRADDIZIONE PRINCIPALE, QUESTIONE DEMOCRATICA

La pubblicazione della cosiddetta “Agenda Monti” e la relativa proposta di applicazione concreta utilizzando una certa metodologia di acquisizione del ruolo di governo attraverso la proposizione di un meccanismo di tipo oligarchico, collocato – ormai – del tutto al di fuori da quanto indicato al proposito dalla Costituzione Repubblicana, sta sicuramente rappresentando un momento di formidabile impatto sull’intero sistema politico italiano, ancora impastoiato (è bene ricordarlo) in quella lunghissima fase di transizione, avviatasi nel 1992.

Una fase di transizione non ancora conclusa nonostante il tentativo di assunzione di un modello bipolare fondato su di una forte personalizzazione della politica: modello che, adesso, appare davvero naufragato e superato da un’ipotesi ancor più pericolosa quale quella oligarchica, cui ho appena accenato.

Diventa interessante, al proposito, seguire la vicenda del “giallo” circa l’origine di una parte del testo in questione: proveniente direttamente, a quanto pare, dall’interno dello stesso Partito Democratico, il cui esponente chiamato in causa al proposito ha già avviato, però, le procedure per una scissione, per adesso di modeste dimensioni ma che i fautori dell’agenda in questione ritengono possa trasformarsi in un vero e proprio “effetto valanga”.

Questo fatto è accaduto, tra l’altro, mentre il PD è impegnato in un’operazione di definitivo superamento di una forma – partito basata sull’idea di un confronto interno e una relativa assunzione di responsabilità collettiva da esercitarsi in tutte le sedi fuori e dentro le istituzioni.

Il PD sta trasformandosi, invece, in un partito di “individui” in competizione perenne fra di loro, in diverse forme e a seconda dell’occasione, stimolati a stare insieme principalmente dall’interesse personale o della particolarità di un gruppo, come bene descrive Hirschman.

Torniamo, comunque, all’essenziale (com’è stato richiamato, in questi giorni, da un segretario di Partito) per individuare su quali contraddizioni si appoggia questa cosiddetta “agenda Monti” e i riflessi immediati che, da questa analisi, ne sortiscono per la presenza di una sinistra d’alternativa nel nostro Paese.

Sinistra d’alternativa impegnata, in questo momento, in una faticosissima iniziativa al riguardo della presentazione elettorale di un “cartello” che comprende anche, in posizione prevalente se non egemonica (considerata la realtà delle regole del gioco) una parte della magistratura legata a un’idea molto forte di conflitto con le istituzioni dominanti, attorno al tema del ripristino della legalità violata nell’esercizio soprattutto del potere politico e del collegamento tra questo e parti rilevanti della criminalità organizzata di stampo mafioso, ormai operante non solo nel Sud ma in tutta l’Italia.

Assunto questo tema, del resto fondamentale, è necessario che la sinistra d’alternativa, nel definire questa sua possibile presenza e soprattutto nel delineare una propria autonoma possibilità di presenza politica nel futuro attraverso una forma organizzata, che dovrebbe assumere – a mio parere – la dimensione di un partito politico, sviluppi un’iniziativa adeguata proprio sul terreno che questa cosiddetta “Agenda Monti” indica con estrema chiarezza.

Un terreno che identifico senza alcun dubbio in quello della “contraddizione di classe”.

Tralascio il riferimento all’ampio dibattito che, su questo punto, si è sviluppato nel corso degli anni, tendendo a negare, a nascondere, a ricondurre ad altre vie, l’elemento di quella che è stata definita “contraddizione principale”, ma di questo si tratta, proprio in questo preciso momento storico, pur nell’evidente complessificazione sociale e nell’emergere, di conseguenza, di una pluralità di fratture sociali che abbiamo definito “post-materialiste” ( che nel dibattito in corso appaiono aver assunto una valenza prioritaria).

Riprendo allora la definizione classica, di derivazione marxiana, del concetto di classe “ raggruppamento umano omogeneo dal punto di vista sociale e degli interessi, la cui differenziazione non è dovuta a fattori naturali, ma a elementi sociali. La classe è definita dalla divisione del lavoro e dalla proprietà dei mezzi di produzione”.

Su queste basi si sono realizzati i rapporti di forza fondati sulla dimensione delle organizzazioni politiche che, adesso, quale esito della crisi s’intende ristabilire compiutamente a favore  di ci rappresenta la proprietà dei mezzi di produzione: avevamo giudicato “antica” questo tipo di definizione e invece proprio gli sviluppi economici, politici, sociali di questi ultimi anni, a livello internazionale e interno ce ne hanno ricordato brutalmente l’assoluta modernità.

La cosiddetta “Agenda Monti ripropone per intero questo tema come quello dominante per il prossimo futuro e lo collega a un’altra grande questione: quella democratica.

Si propone, nella metodologia che è stata messa in atto sul piano più propriamente politico, l’espressione di un elitismo molto pericoloso, perché insinuato nelle pieghe di esercizio ,nel corso del suo sviluppo, di un’apparente forma democratica, favorita dalla legge elettorale vigente nella forma dell’indicazione del cosiddetto “capo della coalizione”. Uno stratagemma usato a suo tempo per nascondere una qualche forma di elezione diretta e adesso trasformato nel grimaldello per far passare l’idea –appunto – dell’oligarca che assume il potere in una forma comunque indipendente dall’esito delle elezioni.

Una doppia combinazione questa, indicata proprio dalla cosiddetta “Agenda Monti” tra questione di classe e questione democratica che dovrebbe far riflettere al meglio i dirigenti della possibile e/o presunta sinistra d’alternativa: si possono fare cartelli e alleanze per contingenti ragioni tattiche (lo spauracchio della soglia di sbarramento) ma mai come in questo momento è necessario che un partito si fondi con precisione sull’identità della contraddizione sociale, seguendo ancora lo schema fondamentale elaborato da Stein Rokkan (Cittadini, elezioni, partiti. Prima edizione 1970).

All’interno della possibile presenza nella competizione elettorale ma, soprattutto, nella prospettiva politica di medio periodo l’esigenza di un soggetto politico chiaramente definito attorno ai due temi che ho cercato di affrontare in quest’occasione: contraddizione di classe e questione democratica, dovrà risultare un fondamentale punto di riferimento, sia sul piano teorico sia su quello dell’iniziativa concreta.

Savona, 25 dicembre 2012 Franco Astengo  

 

SINISTRA D’ALTERNATIVA: REPUBBLICA PARLAMENTARE, LEGGE ELETTORALE, CULTURA POLITICA

La legislatura appena terminata è stata contraddistinta, oltre che da tanti altri fatti ed episodi che davvero sarebbe troppo lungo riassumere, da due elementi di grandissima importanza sul terreno dell’insieme delle relazioni istituzionali.

La prima riguarda la fortissima torsione in senso presidenzialista e decisionista che il nostro sistema ha subito, soprattutto ad opera del Presidente della Repubblica che, agendo ovviamente su un sedime accumulato nel tempo, ha operato una svolta molto decisa in questa direzione: svolta che ha raggiunto il suo apice, non tanto nell’ultima fase con le continue esternazioni del Capo dello Stato sui temi politici immediati, quanto per le modalità di conferimento di incarico al Capo del governo dei “tecnici” (con tanto di nomina a senatore a vita, quarantott’ore prima del conferimento dell’incarico stessa).

Una sinistra d’alternativa capace di presentare alle elezioni superando essa stessa il vincolo del personalismo che pure ha contagiato tante altre formazioni dovrebbe mettere al primo posto del proprio programma il ritorno alla pienezza di funzionamento della Repubblica Parlamentare, partendo dal ruolo di Camera e Senato, affrontando il nodo dell’eccesso di decreti leggi ma estendendo anche questa iniziativa agli Enti Locali e al ruolo dei loro consessi elettivi, ormai ridotto a marginalità dall’eccesso di potere in mano ai Sindaci eletti direttamente, che dispongono anche del potere di nomina degli assessori (potere di nomina che dovrebbe tornare ai Consigli stessi, eliminando anche la figura del cosiddetto “assessore esterno”).

Insomma, il punto su cui discutere ed impegnarsi è rappresentato dal rapporto tra governabilità e rappresentanza politica, ormai troppo squilibrato a vantaggio del primo elemento citato, quella della governabilità della quale si è fatto un vero e proprio feticcio.

Il secondo elemento è quello relativo alla mancata modifica della legge elettorale, per cui si andrà a votare il 24 Febbraio con la legge elettorale varata nel 2005, che presenta almeno quattro macroscopiche questioni che ne inficiano totalmente la dimensione democratica: a) le liste bloccate; b) il premio di maggioranza; c) le soglie di sbarramento; d) la regionalizzazione nell’assegnazione dei seggi al Senato.

Il tema di una nuova legge elettore si pone così al centro di una fase politica che con un eufemismo potrebbe essere definita come di grande delicatezza, sia per la situazione economica sia per quella politica, sia sul piano internazionale, sia sul piano interno laddove appare possibile addirittura un passaggio di complessivo riallineamento del sistema.

 

La realtà della profonda crisi economica e sociale richiederebbe, prima di tutto, un salto di qualità sul piano culturale, attraverso l’avvio di un serio tentativo di ricostruzione di una sintesi progettuale.

Una sintesi da realizzarsi riuscendo a oltrepassare le espressioni correnti dell’individualismo dominante (frutto dell’approccio neo-liberista ormai introiettato, fin dai primi anni’90, anche dalla sinistra italiana di tradizione socialista e comunista: salvo alcune eccezioni rimaste minoritarie).

E’ stato attraverso le espressioni dell’individualismo che si sono affrontate, almeno fin qui, le cosiddette contraddizioni “post-materialiste”.

Quelle contraddizioni “post-materialiste” che Inglehart, fin dal 1997, ha definito come “le scelte sullo stile di vita che caratterizzano le economie post-industriali”.

Oggi, proprio la realtà della crisi globale (delle quale, almeno in questa sede, non enucleiamo le caratteristiche specifiche per evidenti ragioni di economia del discorso) reclama il ritorno all’espressione di valori orientati, invece: “ alla disciplina e all’autolimitazione, che erano stati tipici delle società industriali”.

Appaiono evidenti le esigenze che sorgono nel merito della programmazione, dell’intervento pubblico in economia, della redistribuzione del reddito, dell’eguaglianza attraverso l’espressione universalistica del welfare, del ritorno a una “dimensione geografica” (quest’ultimo punto, per quel che ci riguarda, dovrebbe chiamarsi “Europa politica” da ricostruire oltrepassando l’Europa delle monete).

Dal mio punto di vista il tema della legge elettorale risulta, così, strettamente collegato a quello della presenza politico-istituzionale di una sinistra capace di elaborare un “progetto di sintesi” (lo abbiamo già definito, in altra occasione “programma comune”, ponendoci nella dimensione di un aggiornamento storico delle nostre coordinate di fondo, oltrepassando così quegli elementi di distintività identitari causa delle divisioni del passato).

Perché questo stretto legame?

Ripercorriamo velocemente le caratteristiche dei due principali sistemi elettorali: il maggioritario (nella cui direzione ci si è rivolti, in Italia, al fine di costruire un artificioso bipolarismo).

L’idea del maggioritario è stata frutto, al momento dell’implosione del sistema politico nei primi anni’90, di una vera e propria “ubriacatura ideologica”, strettamente connessa all’ondata liberista: non si sono avuti risultati sul terreno della frammentazione partitica e su quello della stabilità di governo (sono, forse, diminuite le crisi  formali ma di molto accresciute, se guardiamo anche alla stessa fase più recente fibrillazioni che hanno causato fasi di vera e propria ingovernabilità).

Ritorno su temi già abbozzati in principio di questo intervento: il maggioritario ha aperto la strada allo svilimento nel ruolo delle istituzioni, alla crescita abnorme della personalizzazione (fenomeno che ha colpito duramente a sinistra, al punto da renderla in alcune sue espressioni di soggettività del tutto irriconoscibile), alla costruzione di quella pericolosissima impalcatura definita “Costituzione materiale” attraverso l’esercizio della quale si tende verso una sorta di presidenzialismo surrettizio, all’allargamento del distacco tra istituzioni e cittadini.

Il sistema proporzionale (quello “vero”, non certo quello del sistema elettorale vigente, sul quale- ripetiamo – non spendiamo parole ma un velo pietoso) è stato accusato di rappresentare, nel passato recente della storia d’Italia, il veicolo di quel consociativismo considerato l’origine di tutti i mali del sistema politico, inefficienza e corruzione “in primis”.

Preso atto di tutto ciò cogliamo l’occasione per esprimere una valutazione di fondo favorevole al sistema proporzionale: il proporzionale, infatti, rappresenta un sistema fondato necessariamente sul ruolo dei partiti, quali componenti fondamentali di una democrazia stabile, inoltre lo scrutinio di liste esige, necessariamente, un diverso equilibrio tra le candidature, affrontando così il tema del decadimento complessivo della classe politica.

Interessa, però, soprattutto il legame tra sistema elettorale e struttura dei partiti.

E’ questo il punto fondamentale del discorso che intendiamo sostenere in questa sede: la sinistra ha bisogno di un’adeguata soggettività politica che, proprio alla presenza di un’articolazione così evidente nelle richieste della società , produca reti fiduciarie più ampie e meno segmentate, più aperte verso le istituzioni, in grado di essere considerata produttrice e riproduttrice di capitale sociale, di allentare la morsa del particolarismo dilatando anche le maglie delle appartenenze locali e rilanciando il “consolidamento democratic

Un tema che dovrà, comunque, essere affrontato nel breve periodo anche da un sinistra  che intenda, al di là della scadenza elettorale che pure dovrà essere rispettata, esprimersi sul terreno di una proposta di vera alternativa a questo sistema politico avviato ormai verso la crisi più profonda.

Savona,  23 Dicembre 2012     Franco Astengo


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